«Non mi sono meravigliato della bocciatura di Roma, perché non esisteva un’idea progettuale precisa». Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, che domani presenterà il suo 57esimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese alla presenza del presidente della Repubblica Mattarella nella sede del Cnel, non usa mezze misure per commentare l’esito della candidatura della capitale italiana per ospitare l’Expo 2030.

Professore, si è avuta la sensazione che si puntasse più sulla storia della città, sul suo passato, piuttosto che sul futuro e sull’innovazione.

Direi proprio di sì. Io sono un reduce del tentativo dell’Expo di Venezia 2000. Parliamo di un progetto che aveva un padre nobile potente, Gianni De Michelis all’epoca ministro degli Esteri, e con un’idea precisa: Venezia e il Veneto sarebbe stata la piattaforma di un rapporto tra ovest ed est, cioè da Barcellona a Kiev. Un asse verso la Russia che partiva dalla Spagna e passava da Francia e Italia. Il Veneto era la piattaforma, tant’è vero che la proposta era VenetoExpo, poi Venezia fu individuata come più iconica e la soluzione definitiva divenne “VeneziaExpo 2000”. Il progetto prevedeva il rapporto con Trieste e l’entroterra veneto. Una delle idee più belle era quella di Renzo Piano di realizzare a Mestre un progetto tecnologicamente avveniristico che avrebbe permesso di visitare Venezia senza andarci.

Ma anche a Venezia andò male...

Il progetto non andò avanti, non perché fu preferita la concorrenza che di Hannover. Non ci sarebbe stata partita e fino a pochi giorni prima della decisione, infatti, c’era la maggioranza assoluta. Ma Venezia si fece del male da sola: ospitò qualche giorno prima un concerto dei Pink Floyd in piazza San Marco con migliaia di persone. Il giorno successivo il centro della città era pieno di rifiuti e a quel punto cominciarono a sorgere dubbi sulla tenuta della città ad accogliere milioni di visitatori per l’Expo. A quel punto, il giorno stesso della candidatura, il governo Andreotti ritirò la candidatura.

Una brutta figura come quella di Roma?

Una cosa è ritirarsi per fatti interni nonostante un progetto valido, altra cosa è essere bocciati per la mancanza di un’idea progettuale di fondo.

E con una città impreparata...

Tenga presente che per realizzare il progetto di Venezia ci impiegammo sei anni, coinvolgendo le maggiori intelligenze italiane e internazionali. Oggi non esisteva un progetto, si è puntato tutto su Roma, una città fragile e debole. Un Expo non può basarsi sul Colosseo, i monumenti, le basiliche: quelle ci sono a prescindere. Furono molto più intelligenti la Moratti prima e Sala dopo che per Milano hanno puntato sul cibo. Quella era un’idea banale, ma allo stesso tempo geniale.

Purtroppo sembra che l’Expo per Roma sia una sorta di maledizione: quello del 1942 fu bloccato dalla Seconda Guerra Mondiale.

In quel caso il progetto c’era ed era tutto pronto, basta pensare che l’Eur con i suoi edifici è ancora lì e ancora oggi sono utilizzati. Oggi dobbiamo parlare di una incapacità progettuale della città e non si sa neanche a chi attribuire la sconfitta. Quale è stata l’idea iniziale, che cosa si voleva ottenere. Portare a Roma un po’ di turisti? Ma ce ne sono già tantissimi.

Si è persa comunque un’occasione.

Se ci fosse stato un progetto che guardava al futuro e all’innovazione si sarebbe potrebbe dire di aver perso un’occasione. Con Roma Expo l’Italia ha fatto solo una brutta figura e la responsabilità è di una classe dirigente romana.

Il fatto che alcuni paesi europei non abbiano votato per Roma potrà incidere sui rapporti con il nostro governo?

Ma perché avrebbero dovuto votare per Roma? Vorrei sottolineare la nota furbizia di Giorgia Meloni che non si è mai occupata di questo argomento. Non ha mai fatto neanche un colloquio telefonico per sostenere la candidatura di Roma e il giorno della votazione si è guardata bene dall’andare a Parigi. È una caduta di credibilità della città, non del governo. Ripeto è una città senza classe dirigente, senza la capacità di pensare al futuro. L’unico che ha avuto abilità progettuale è stato Francesco Rutelli dal 1993 al 2000. Aveva da pensare al Giubileo e ci ha costruito la sua immagine e quella di Roma.

La bocciatura dell’Expo potrà avere dei contraccolpi anche sul prossimo Giubileo?

Il Giubileo comunque si fa a Roma, non c’è bisogno di una votazione. Il prossimo sarà, per così dire, ordinario rispetto a quello del 2000 che aveva una importanza e un significato particolare: era il Giubileo del nuovo millennio. Per questo ci saranno opere ordinarie, ma nessuno si accorgerà di qualcosa di eccezionale. I fedeli verranno, così come i turisti che, per fortuna, a Roma non mancano mai. Il Giubileo non è un momento di vaglio della classe dirigente di Roma, così come lo è stato l’Expo.

A proposito di vaglio la nostra economia è perennemente sotto esame. Il debito pubblico è sul banco degli imputati.

C’è sempre un problema di debito pubblico e di finanza pubblica, ma parliamo della punta dell’iceberg della situazione italiana. Il fatto vero è che ci salva o ci disturba o ci porta a fondo la parte sommersa dell’iceberg. Ricordo che all’inizio degli anni 70 il Governatore della banca d’Italia chiedeva di non far attraccare le petroliere nei porti italiani, perché non aveva i soldi per pagare il petrolio. Con questo voglio dire che il deficit pubblico italiano c’è sempre stato. Ora abbiamo i giudizi positivi delle società di rating, lo spread basso, ma è la parte sommersa che va analizzata, non l’emerso. Chi parla di deficit pubblico alto rappresenta la realtà italiana in maniera tradizionale, senza evidenziare che esiste una economia sommersa.

Prego.

Negli anni 70 era molto più forte, oggi probabilmente non è più così vigorosa. Il Censis ne parla da 50 anni e siamo considerati degli ottimisti a oltranza. Proprio ieri ho detto ai miei che dobbiamo evitare di cadere nella trappola di essere ottimisti perché abbiamo scoperto il sommerso. La Banca d’Italia parla di economia non rilevata, ma ripeto è questa la parte da analizzare.

Intanto gli italiani devono fare i conti con una inflazione che non accenna a diminuire e le prospettive di crescita ci fanno essere poco ottimisti.

Gli italiani in questi casi sono ripetitivi. Sono anni che risparmiano e continuano a farlo, anche se con l’inflazione il suo risparmio vale un po’ meno. Sono i processi lenti che non vengono analizzati. Abbiamo detto per dieci anni che siamo il Paese più risparmiatore, più del Giappone, la gente continua a risparmiare e noi non lo rileviamo.

Stanno arrivando i soldi del Pnrr, pensa che riusciremo a spenderli o rischiamo un’altra brutta figura.

Prima di tutto bisogna riconoscere che Fitto come ministro è stato bravissimo, riuscendo a far accettare alla Ue le modifiche a un piano pieno di ambizioni ma non attuabili. Il testo ora è più realizzabile e il ministro ha articolato le responsabilità con gli enti locali, evitando di accentrarle in capo al ministro dell’Economia. Almeno con Fitto non credo che faremo brutte figure.

Altri ministri e la classe dirigente del governo Meloni prestano il fianco alle critiche. Secondo lei si tratta di critiche ingenerose?

Le rispondo in modo molto preciso. Non si discutono i vertici, come la presidente del Consiglio e i ministri, ma invece è certo che l’Italia è povera di una classe dirigente oligarchica. Mi riferisco a quelle persone che sanno governare, gestire il potere, analizzare e utilizzare i dati giusti. La distruzione di quella che fu definita la casta ha rappresentato la fine di una classe oligarchica capace. Non ci sono più i Ragionieri generali dello Stato tipo Monorchio, non c’è un Ruggeri. Non ci sono i direttori generali. Mi permetta un ricordo lontano.

Quando, da giovane ricercatore Svimez, negli anni 50 entrai al ministero della Pubblica istruzione rimasi sorpreso dal fatto che tutti i direttori generali fossero o massoni o fascisti. Scoprii che c’era stato un ordine di De Gasperi di tenerseli tutti buoni. De Gasperi aveva capito che senza oligarchia non si governava e anche se erano probabilmente infedeli alla Dc di allora bisognava farci i conti. Noi, invece, abbiamo fatto lo spoil system che non dà risultati: si sostituisce qualcuno bravo con l’amico dell’amico.

La mancanza di oligarchia ha penalizzato anche Roma nella corsa per l’Expo 2030.

Non mi riferisco solo al comune di Roma, ma al giro romano. Una volta c’erano le banche romane con i loro banchieri che costituivano la classe dirigente, si incontravano, analizzavano progetti e magari li finanziavano. Non c’è mai stata una amministrazione pubblica romana, questo è vero. La parola oligarchia a qualcuno può sembrare una bestemmia, ma è necessaria per far funzionare la cosa pubblica.

A proposito di mancanze, si registra l’assenza dell’opposizione a questa maggioranza.

L’opposizione si fa su temi, su proposte. Dire no a tutto non è da opposizione credibile. L’opposizione si qualifica se si presenta come un credibile successore di governo, altrimenti è sterile. E anche in questo caso l’oligarchia è fondamentale.

E qualcuno considera i sindacati come gli unici in grado di fare opposizione.

Ma i sindacati non hanno oligarchia interna. Sono piccoli gruppi di potere che parlano a nome di una grande o medio sindacato. Ho lavorato con Giulio Pastore alla Cisl e lì c’era un gruppo di persone che produceva idee, proposte e sapeva fare oligarchia. Oggi le sigle sindacali, ma anche padronali, sono costituite da un gruppo di amici o di potere, ma non hanno quella funzione tecnico- politica che ha rappresentato la fortuna della Prima repubblica e che ha evitato che crollasse prima. L’oligarchia è scomparsa dappertutto: nello Stato, nei partiti, nei sindacati e nella Confindustria. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.