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L’ideologia è infinitamente più forte dei numeri, più forte della realtà dei fatti e delle prove provate: l’ostinazione con cui si continua a dire che l’obiezione di coscienza impedisce alle donne di abortire lo dimostra. Eppure, basterebbe leggere le relazioni presentate ogni anno al parlamento sull’applicazione della legge 194, per constatare che non esiste un “problema obiezione”.
Ma perché fare questa fatica, quando è tanto più piacevole rifugiarsi nei comodi stereotipi del conflitto laici- cattolici?
Potremmo dire che un bando come quello del Lazio è palesemente incostituzionale, perché seleziona in base non alla figura professionale e alle competenze, ma alle opinioni personali e alla fede religiosa. Se poi si afferma, come ha fatto qualcuno, che il medico assunto tramite quel concorso “non può cambiare idea”, si approda direttamente allo stato etico, e comunque a forme di violenza morale inaccettabili in uno stato di diritto. Per lavorare devo rinunciare alla mia libertà interiore, alla mia fede, e non posso cambiare idea: roba da regime totalitario. Ma quello che colpisce ( e che non si dice) è quanto la forzatura giuridica sia superflua e dunque ideologica, non dovuta a cause di forza maggiore, perché in realtà il diritto alla libertà di coscienza non è affatto in contrasto con l’accesso all’aborto.
All’inizio di questa legislatura è stata approvata una mozione che chiedeva informazioni più dettagliate sul funzio- namento della 194 e sull’obiezione di coscienza, da sempre molto alta in Italia. Istat, Istituto Superiore di Sanità e Ministero si sono messi al lavoro, e i dati sono stati raccolti in modo capillare, struttura per struttura, col risultato di fornire un panorama dell’interruzione di gravidanza nel nostro paese inedito e completo. Dalla massa dei nuovi dati, forniti dalle regioni ( quindi non di parte), si scopre che il carico di lavoro per i non obiettori è di 1,6 aborti a settimana, considerando 44 settimane lavorative all’anno. Si dirà che la media nazionale significa poco, è il famoso pollo di Trilussa, ci saranno situazioni virtuose e altre disastrate. Non è così, pochissime Asl si discostano dalla media, e solo tre in modo significativo, con punte di 15 aborti a settimana. Ma anche in questo caso non si tratta di una pressione insostenibile, visto che parliamo di due o tre mezze giornate a settimana. Inoltre a livello nazionale c’è un 11% di medici non obiettori, disponibili a praticare aborti, che non lo fa, semplicemente perché le strutture non lo richiedono.
Non solo. Il numero degli obiettori nel corso degli anni è rimasto praticamente inalterato, mentre gli aborti sono drasticamente calati. Nel 1983 i non obiettori erano 1607, nell’ultima relazione si parla di un numero molto vicino, 1408, ma gli interventi da 234.000 sono scesi a 87.000, quasi un terzo di quelli dell’ 83. Se poi consideriamo il numero di punti nascita e dei reparti in cui si praticano le interruzioni, il confronto è imbarazzante: gli aborti sono il 20% delle nascite, ma le strutture dove si abortisce sono il 74% rispetto a quelle dove si fanno nascere bambini. Le difficoltà di accesso alle interruzioni di gravidanza, dove esistono, sono dovute a smagliature nell’organizzazione sanitaria, e non a caso il problema riguarda soprattutto le regioni commissariate e quelle dove c’è malagestione e voragini di bilancio, dove ci sono liste d’attesa e difficoltà d’accesso generalizzate. Perché allora insistere con bandi riservati, ricorsi al Consiglio d’Europa ( bocciati), e in generale con la colpevolizzazione dell’obiettore? Perché si sa, l’ideologia ha sempre la meglio, riscalda i cuori e le nostre poche certezze. I numeri no.
Eugenia Roccella, deputata di “IDEA”