Sono ormai mesi che le questioni delicate e serissime che riguardano i rapporti fra magistratura e politica nel nostro paese occupano le prime file del dibattito sui media. Adesso che appare sulla agenda istituzionale la riforma dell’ordinamento giudiziario e che in prospettiva si comprende che il sistema giustizia potrebbe entrare in una – ennesima? – fase di revisione di carattere normativo – si pensi alla riforma della giustizia civile – è tempo di fare un po’ di ordine e di mettere le cose in prospettiva. Solo che per una volta invece di metterle in prospettiva futura, occorre che esse vengano messe in prospettiva passata.

Quale è il modello da adottare nel definire con equilibrio fra magistratura e politica?

Se per “politica” si intende quell’insieme di istituzioni che esercitano un potere costituzionalmente garantito e che assegnano quote di risorse e di valori sancendo equilibri sociali ed economici, allora il potere giudiziario è, come gli altri poteri, parte della “politica” nel senso di esercizio del potere in vista della tutela di cio’ che travalica i confini individuali, pur nel rispetto dei diritti individuali. Pertanto che vi sia esercizio di potere decisionale dentro allo spettro dell’esercizio del potere giudiziario è cosa che attiene alla fisiologia. Se cosi è, nella scelta del modello vanno tenuti in considerazione anche gli equilibri fra le varie voci che si esprimono nell’esercizio di quel potere: fra tali voci vi sono quelle del potere giudicante rispetto al potere requirente, le funzioni di carattere nomofilattico rispetto alle funzioni di soluzione delle controversie di primo grado, quelle fra le funzioni di partecipazione alla nomina dei direttivi sia per parte dei componenti togati del CSM sia per parte dei componenti laici del CSM. Sono solo esempi. In sintesi, a bene vedere, dentro al mondo del potere giudiziario gli snodi che determinano per ciascun ambito funzionale, equilibri di potere, sono tantissimi, e non sarebbe in alcun modo possibile scegliere un modello di rapporto fra magistratura e politica guardando soltanto ai confini che intercorrono fra poteri, giudiziario, da un lato, esecutivo e legislativo dall’altro, senza tenere in alcun conto ciò che accade dentro allo spazio funzionale ordinamentalmente governato e costituzionalmente protetto, di ciascun potere per le prerogative di ciascuna delle sue voci.

Se per “politica” invece si intende la politica dei partiti, allora la questione cambia e cambia di molto. Il distinguo va fatto fra quella politica che attiene al circuito di legittimazione elettorale democratica e quella politica nel senso di esercizio di potere che attiene al circuito di legittimazione ‘ terza’, fondata sulla imparzialità. La questione è delicatissima e per il nostro paese la storia pesa moltissimo. Che vi sia stata supplenza funzionale accettata dalla politica legittimata elettoralmente e democraticamente verso l’esercizio del potere da parte del giudiziario su questioni urgenti e di difficile soluzione è cosa che non possiamo dimenticare. I vuoti decisionali sono una sorta di ‘ vertigine’ nelle società complesse e non siamo soli, sul piano comparato, a vivere la tendenza a supplire funzionalmente laddove la politica delle istituzioni elettive ha manifestato la sua assenza o la sua lentezza o, ancora, la sua incapacità a darsi un equilibrio stabile nel tempo. Gli esempi sono innumerevoli. Ciò che conta è che a questo punto la democrazia italiana si trova segnata dalla sua storia come un territorio si trova segnato dalle varie strade che mano a mano nel tempo le persone solcano e fissano dove dapprima vi era spazio indeterminato. La storia traccia condizioni e con tali condizioni occorre fare i conti.

Riformare il sistema giustizia è una partita doppia da giocare che si qualifica come segue. Da un lato si tratta di mettere mano, e di farlo in modo integrato, all’ordinamento e alle procedure. Se, infatti, è vero che nel potere giudiziario gli equilibri interni fra esercizi di potere sono importanti, allora il rapporto fra giudici e PM cosi come il rapporto fra togati e laici nel CSM, sono aspetti che non potranno – per quanto toccati da strumenti di riforma diversi, l’uno processuale e l’altro ordinamentale – essere affrontati in modo sequenziale. Occorre affrontare l’ambito di esercizio del potere giudiziario nel suo sistema interdipendente.

La seconda partita da giocare riguarda le aspettative e le modalità che la politica e la società italiana vogliono fissare perché sia chiaro chi si prende la responsabilità di decidere su cosa. Se non si vuole una magistratura che supplisca funzionalmente con tutte le criticità che questo comporta occorre che la politica si prenda le proprie responsabilità. Ma quale politica? Quella dei partiti, quella della rappresentanza elettorale democratica. E qui inizia tutta una altra storia. Forse dovremmo spingerci a dire che per un buon equilibrio fra magistratura e politica occorre una vera applicazione del principio di Montesquieu.

Il potere si bilancia con la sua stessa materia, questo è vero dentro al mondo della magistratura questo è vero fra magistratura e altre istituzioni democratiche. Se la riforma dell’ordinamento giudiziario sarà capace dunque di prendersi in carico l’eredità della storia del paese e farsi anche spazio di decisione autonoma dalle ombre del presente per guardare soprattutto al futuro, è questione che scopriremo presto. Insomma, un ponte San Giorgio fra passato e futuro.