Procura benessere, al giurista, leggere le sentenze della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Sono un esempio di chiarezza espositiva e di schiettezza giuridica. Comprensibili anche dall’uomo della strada. Come deve essere. La monumentale sentenza del 13 giugno 2019 della Cedu – caso Viola contro l’Italia – ha fissato principi ineludibili, cui deve adeguarsi il nostro ordinamento penitenziario, nella esecuzione del cosiddetto ergastolo ostativo. Ostativo, perché riguardante reati collegati alla criminalità organizzata, soprattutto mafiosa, perciò di ostacolo, in base alla legge nazionale, alla concessione di qualsiasi beneficio esterno. Per tali condannati, la prospettiva di liberazione è pari a zero, qualunque sia l’entità di pena detentiva scontata e qualsiasi successo riabilitativo interno al carcere fosse raggiunto. A meno che essi non decidano di collaborare con la giustizia, durante l’espiazione. Dunque, senza questa collaborazione, la presunzione di pericolosità a loro carico è permanente ed assoluta. Non ammette prova contraria. Base di partenza del ragionamento dei giudici europei è il riconoscimento della centralità della dignità umana del detenuto, essendo volontà degli Stati sottoscrittori della Convenzione “di aprire al reinserimento dei condannati all’ergastolo e di offrire loro una prospettiva di liberazione”. Ricorda la Corte che “il principio della dignità umana… impone di lavorare… al …reinserimento della persona e di… fornire alla stessa la possibilità di riconquistare un giorno… la libertà”. Per questo, “le autorità nazionali devono fornire ai detenuti condannati all’ergastolo una possibilità reale di reinserimento”. Secondo la Corte europea, dunque, la possibile concessione a questi detenuti di benefici esterni, sperimentali e funzionali ad un eventuale reinserimento sociale anche in un tempo lontano, non deve essere più subordinata automaticamente al requisito della obbligatoria collaborazione con la giustizia, anche perché “la Corte dubita della libertà di questa scelta”. Come si sa, l’Italia deve “conformarsi alle sentenze definitive della Corte”. Sulla scia di tale ragionamento, la Corte Costituzionale, da ultimo, con ordinanza n. 97 dell’11/5/2021, ha riaffermato il principio che la presunzione di pericolosità del condannato all’ergastolo per reati di mafia che rifiuta di collaborare non può essere assoluta e, quindi, non può impedire alla magistratura di sorveglianza di valutare elementi diversi per la concessione di benefici. La stessa Corte ha perciò invitato il Parlamento ad intervenire legislativamente sul tema, assegnando tempo sino al 10 maggio del 2022, per risolvere la problematica sollevata. La scadenza si avvicina e la Camera ha prodotto una prima bozza di disegno di legge modificativo dell’ordinamento penitenziario, finalizzato all’adeguamento al dettato dei giudici europei e costituzionali. Tuttavia, a quanto è dato conoscere, la modifica, resa complessa da comprensibili motivi di compromesso, sebbene partita con l’intento di fare luce, ha finito, involontariamente, per lasciare o creare nuove zone d’ombra, per la creazione e distribuzione di una serie di adempimenti, oneri, responsabilità, tali da lasciare le cose più o meno come prima o rendere l’ammissibilità ai benefici più virtuale che reale. Infatti, per ottenere un qualsiasi beneficio penitenziario esterno, anche non consistente nell’ammissione ad una stabile misura alternativa al carcere, occorre ora dimostrare prima di aver risarcito integralmente il danno derivante dal reato o di essere assolutamente impossibilitato a farlo. L’istante deve poi dimostrare lui stesso, in modo certo e rigoroso, di non avere più legami con la criminalità organizzata e che non ci sia il pericolo che questi legami, ove pure apparentemente interrotti, non si ripristinino, anche indirettamente. Ci si domanda in che modo, un detenuto, dopo 15, 20, 25 anni di carcere precauzionale, sia pure scontati nel pieno rispetto delle regole interne e con ottimi risultati certificati dagli educatori, possa dimostrare un dato negativo, come l’assenza di quei legami. Questo non significa che tanto buon carcere equivale ad ammissione automatica ai benefici. Significa soltanto che la verifica sulla sussistenza o meno di collegamenti con la criminalità organizzata è compito anche e soprattutto delle istituzioni, a cominciare dalla direzione carceraria, dall’equipe scientifica della personalità e dalle forze di Polizia. Verifica da compiersi in modo altrettanto certo e rigoroso, sulla base di indagini e dati concreti, attuali e non retrodatati, evitando il pericolo, segnalato dalla citata sentenza dei giudici europei, che, nelle valutazioni conclusive, la personalità del condannato resti congelata al momento del reato commesso, giacché “essa può evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione, che permette personalità”. Il disegno di legge prevede poi il rilascio di una serie aggiuntiva di pareri presso uffici giudiziari requirenti, attuali e pregressi. La normativa così abbozzata, se tramutata in legge, non è al riparo dal rischio che il sistema finisca per rimanere ingessato in stile gattopardesco. Si è anche auspicata, da alcuni osservatori, l’istituzione di un tribunale di sorveglianza nazionale, con competenza esclusiva sulla concessione dei benefici, per lo meno in tema di ergastolo ostativo, così centralizzando le funzioni della magistratura di sorveglianza, giustificato dalla necessità di conseguire un indirizzo giurisprudenziale uniforme sull’intero territorio italiano. La proposta di istituire un tribunale di sorveglianza unico nazionale, centralizzato, con sede a Roma, con competenza esclusiva sui detenuti sottoposti all’ergastolo ostativo, presta il fianco a critiche molteplici ed insuperabili. Innanzitutto, il pluralismo di idee dei giudici di merito è sempre stato considerato garanzia di democraticità giuridica e di fruttuosa evoluzione della giurisprudenza, ferma restando la funzione regolatrice della Corte di Cassazione sui principi di diritto. La proposta, poi, contraddice al principio generale che concepisce la giurisdizione come servizio necessariamente legato al territorio. Se questo servizio non coprisse ogni area geografica di competenza e non raggiungesse tutte le fasce di popolazione, non ci sarebbe giustizia uguale per tutti. La difesa non sarebbe piena. Il contraddittorio non sarebbe pari. Non ci sarebbe giusto processo. Il richiamo alla vigente competenza, in tema di reclamo avverso l’applicazione del carcere duro ex articolo 41 bis, del Tribunale di sorveglianza di Roma, come modello da assumere, non è del tutto pertinente. Questa competenza, infatti, è circoscritta alla impugnazione dei provvedimenti ministeriali di sospensione del trattamento, quindi attiene esclusivamente allo svolgimento della vita del detenuto all’interno del carcere e non si estende all’ambito dei benefici penitenziari esterni, che restano soggetti alle ordinarie regole sulla competenza territoriale dei singoli tribunali di sorveglianza. Attenzione: il procedimento di sorveglianza può richiedere l’acquisizione di prove extra documentali, ad esempio testimonianze, da assumere, per legge, “in udienza nel rispetto del contraddittorio”. Ciò sarebbe impraticabile, dinanzi ad un tribunale di sorveglianza centralizzato. Nella composizione attuale del Tribunale di Sorveglianza, il legislatore ha stabilito che “uno dei due magistrati ordinari deve essere il magistrato di sorveglianza sotto la cui giurisdizione è posto il condannato o l’internato in ordine alla cui posizione si deve provvedere”. Il motivo è evidente: solo una effettiva sorveglianza in loco delle vita carceraria del detenuto può garantirne una piena conoscenza ed assicurare un’attenta, ragionata e consapevole verifica del processo di riabilitazione compiuto. Questo è il perno dell’ordinamento penitenziario italiano, quale corollario dell’articolo 25 della Costituzione, senza di che crolla l’intera costruzione. La magistratura di sorveglianza deve effettivamente sorvegliare. Quindi, deve seguire da vicino l’andamento del trattamento penitenziario. Per questo, essa ha il diritto-dovere di entrare in colloquio con il detenuto, senza distinzione alcuna. Tutto questo sarebbe impossibile, senza un tribunale dislocato sul territorio. La Cedu ha ribadito che “la risocializzazione deve orientare l’azione” non solo del legislatore, ma anche “del giudice della sorveglianza”. Con un unico giudice nazionale, la finalità resterebbe negletta. Certo, tutto si può modificare. Ma, stravolgere l’impianto attuale dell’ordinamento penitenziario significa cancellarne la filosofia di base e compiere un salto acrobatico giuridico all’indietro. Dopo 20 o 25 anni di detenzione carceraria, gli unici in grado di riferire sull’evoluzione del detenuto saranno gli educatori penitenziari. Non è impossibile, ma è ben difficile, dopo un intervallo di tempo così ampio, corrispondente ad un ricambio generazionale demografico, che le istituzioni esterne possano fornire elementi concreti circa l’avvenuta rescissione dei legami con la malavita organizzata. Per il diretto interessato, magari totalmente recuperato, come potrebbe essere richiesta e fornita la prova, diabolica, di un fatto negativo? C’è una soluzione? C’è sempre una soluzione alle cose. Basta volerla trovare. Ad esempio, il sistema potrebbe prevedere che l’autorità penitenziaria demandi alle forze di polizia la verifica periodica sulla sussistenza o meno di collegamenti esterni con la criminalità organizzata, di pari passo con il trattamento interno, allo scopo di comprovare in tempo reale l’autenticità dei progressi rieducativi compiuti in carcere e di motivare, con cognizione di causa, eventuali proposte di sperimentazione in esternato. Sarebbero inutili indagini di polizia rimandate ad un tempo indefinito e sganciate dal corso del trattamento penitenziario, come se questo non fosse finalizzato al reinserimento sociale in ogni momento utile e possibile, evitando che il regime delle verifiche si trasformi in una specie di gioco dell’oca fuori tempo. La soluzione o risposta al problema non soffia nel vento, ma va ricercata dentro la motivazione della sentenza Cedu, quando questa afferma che “la personalità del condannato non resta congelata al momento del reato commesso. Essa può evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione, che permette alla persona di rivedere in maniera critica il suo percorso criminale e di ricostruire la sua personalità”. Verifiche sì, ma in tempo reale ed allineate al trattamento penitenziario. (*Magistrato, già presidente Tribunale di Sorveglianza di Taranto) LEGGI ANCHE: Green pass rafforzato, le regole da seguire: dai matrimoni ai ristoranti