Si può anche partire dalla fine, e dire che quella tra Lega e Cinquestelle è l’unica maggioranza possibile in grado di esprimere un governo. Tutto il resto - coinvolgimento del Pd o esecutivo “neutro” del Presidente - sono strade o chiuse in partenza o che hanno come sbocco le elezioni. Perciò è giusto che prima di calare il sipario sulla legislatura almeno un tentativo di governo “politico” ci sia. E si può perfino convenire con Luigi Di Maio che per “scrivere a Storia” ( evidentemente con la S maiuscola) serve tempo. Ben sapendo che se poi la Storia si dimostra traguardo troppo ambizioso, il tempo che passa diventa perso. Tutto questo per dire che si possono concedere parecchie attenuanti allo sforzo che Salvini e Di Maio stanno conducendo e che la benevola pazienza di Sergio Mattarella si incarica di supportare. Però a tutto c’è un limite e i capi politici del MoVimento e del Carroccio ci sono ormai vicinissimi. Sono due mesi e passa che Salvini e Di Maio si studiano, si annusano, si confrontano. E sono settanta e passa giorni che entrambi sono alla ricerca di un punto d’incontro: sul “contratto” di governo e sul nome di chi da palazzo Chigi se lo deve intestare o esserne “esecutore”. I problemi sul tappeto e il loro perimetro politico- sociale sono chiari e definiti. Ognuno dei due partiti sa su cosa l’altro punta e che livello di priorità assegna a immigrazione, economia, rapporti con l’Europa. Solo per citare i principali. Ambedue sono consapevoli di che genere di ambizioni o necessità pesano sulle loro spalle riguardo il personaggio da indicare al Quirinale per il ruolo di premier. Perciò delle due l’una: o l’accordo è un miraggio, e allora meglio prenderne atto e chiuderla qui; oppure le possibilità di intesa esistono e allora non ci possono essere ostacoli tali da diventare insormontabili. Quel che comunque non è accettabile è condurre le trattative per la formazione del governo come se i protagonisti fossero dentro una soap opera, o alle prese con una partita dove i tempi supplementari non bastano mai e giocatori non fanno altro che chiedere all’arbitro di prolungarli.

Fuori dai confini della possibile maggioranza, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi assistono con sentimenti diversi allo svolgersi della trattativa infinita. Entrambi tifano perché in qualche modo vada in porto positivamente e lo spettro delle elezioni anticipate venga allontanato o addirittura archiviato. Al tempo stesso, entrambi - chi esplicitamente, chi con maggiore accortezza - soffiano sul fuoco del possibile fallimento nella speranza di poterne addossare la colpa ai “ragazzi” che hanno fintamente vinto le elezioni ma si dimostrano sicuramente incapaci di gestire il successo. Lucrandone un tornaconto nelle urne.

Su tutto vigila il capo dello Stato. Gli arabeschi che costellano il confronto tra Salvini e Di Maio non possono che apparirgli incongrui. E tuttavia anche Mattarella è spettatore interessato: non solo per gli scontati obblighi istituzionali che gli competono quanto perché sa che una volta archiviata la liaison tra i due partiti si squadernerebbe come unica strada percorribile quella del già adombrato governo di garanzia. Che però andrebbe incontro in Parlamento ad una sconfitta inevitabile, intaccando in tal modo la figura stessa del Presidente. Sotto questo profilo, c’è un problema che si sta stagliando all’orizzonte e che non appare valutato in tutta la sua problematicità. Sia l’M5S che la Lega, infatti, hanno reso noto che intendono sottoporre all’approvazione dei rispettivi elettorati, con gazebo o via Internet, l’eventuale, appena sottoscritto, contratto di governo. In un simile schema, che fine fanno i compiti assegnati per Costituzione al capo dello Stato? Se, per esempio, gli elettori di entrambi i partiti approvano il programma e invece il Quirinale eccepisce, che succede? E se per assurdo i Cinquestelle approvano e i leghisti no, che si fa: si ricomincia daccapo? La sensazione è che vengano maneggiate materie molto delicate con grande disinvoltura per non dire spregiudicatezza. O perfino avventurismo.

A meno che Salvini e Di Maio non arrivino al punto di considerare come possibile la convergenza solo su un punto: la data delle elezioni. Pagando un prezzo in termini di coerenza e affidabilità molto forte. Ma in ogni caso di caratura inferiore allo stress che i due partiti stanno infliggendo ai cittadini tutti, che a inizio marzo hanno votato per definire i rapporti di forza tra partiti e, per usare un lessico caro ai grillini, avviare la stagione del cambiamento. Per ora, sono rimasti al palo. Fino a quando?