In un talk show, alla domanda di un giornalista su quale sia il bilancio nel contrasto della Giustizia alla ’ndrangheta, un noto procuratore antimafia ha risposto: “pareggio”. Beh, il pareggio crea perplessità, a fronte delle numerose operazioni di polizia che hanno comportato il carcere e il giudizio del tribunale per migliaia di malavitosi, veri e presunti. Il pareggio, parafrasando il calcio, potrebbe significare che si tira in porta senza centrarla, che gli attaccanti fanno cilecca, non sono all’altezza. O che la ’ndrangheta dispone di un’ottima difesa, da riuscire a respingere gli assalti. Quest’ultima ipotesi stride però con le migliaia di arresti, con le file quindi indebolite. Perciò, o la prima o la variante che la ’ndrangheta possa contare su un numero impressionante di affiliati, con panchinari, intesi riserve, che vanno a sostituire i titolari finiti al gabbio. Certo è che esiste un contrasto evidente tra le dichiarazioni degli addetti ai lavori secondo cui da decenni si starebbero infliggendo colpi mortali alla ’ndrangheta e la loro stessa ammissione che essa è sempre più forte, più organizzata e più potente, e che aumenta il peso sul territorio, allarga i tentacoli in tutta Europa. Per capire occorre analizzare i numeri. Il procuratore, in un’ altra intervista, ha stimato in 40 mila gli adepti. E la cifra è in contrasto con i dati della relazione semestrale del Ministero dell’Interno, Direzione Investigativa Antimafia, stilata nel giugno 1997, un periodo nel quale, a rigor di logica, il fenomeno era più sviluppato – nei 25 anni trascorsi la civiltà sarà pure avanzata. Vi si legge: “La provincia di Reggio Calabria, dal punto di vista numerico, presenta la situazione potenzialmente più grave in quanto registra la percentuale di 1 affiliato ogni 165 residenti”. Essendo la popolazione del reggino pari a 548 mila, deriverebbero 3.321 affiliati, corrispondenti allo 0,606%. Se si allarga all’intera regione, su 1.947.000 abitanti gli affiliati diventerebbero 11.799. Mentre per il reggino, per il vibonese e in parte per il crotonese la percentuale a naso appare in difetto, per il resto della regione, no, più facile sia in eccesso. E il dato complessivo diventa attendibile. In tutti i casi, anche ad aggiungere i fiancheggiatori e i collusi non organici, ugualmente si resterebbe molto al di sotto dei 40 mila prospettati. Verrebbe da credere ai malevoli che vogliono ci sia chi ha interesse a ingigantire il mostro ’ndrangheta, che mostro è, perché, in questo modo, si ingigantiscono le carriere, i meriti, le decorazioni, le stellette, si soddisfa l’ego e la vanità, di più se si colpisce in alto, su nomi altosonanti – troppo capita su personaggi poi risultati innocenti ma ormai rovinati e con ombre addosso che rimarranno appiccicate per sempre; e non è un caso che tante brillanti carriere siano decollate proprio da quaggiù. Se così, si massacra la Calabria, e i calabresi, penalizzando molto oltre i reali demeriti. Detto questo, resta in piedi solo l’ipotesi che non sono adeguati l’attacco e il contrasto. Li si vende bene alla nazione e però non funzionano. Non c’è l’efficienza spacciata. Le grandi operazioni di polizia, esaltate con conferenze stampa, per fortuna ora impedite e che in buona misura anticipavano un giudizio di colpevolezza non di competenza, hanno sì inferto batoste pesanti alle cosche e tuttavia hanno trascinato nel baratro una pletora di innocenti, stimabili nel 50% degli incriminati – e per lo più sbattuti in carcere – con punte del 90%. Errori giudiziari di tale portata avvengono soltanto in Calabria. Per averne contezza, basta analizzare l’operazione Infinito-Crimine sviluppata tra la Lombardia e la Calabria, con lo stesso numero di arresti – 163 in ciascuna delle due regioni. In Infinito (Lombardia) l’incidenza di innocenti emersa nei processi è dell’8,7%. In Crimine (Calabria) essa è del 47,6%. Da indurre il pensiero che in fase istruttoria si utilizzino criteri diversi, che in Calabria la libertà, lo Stato di diritto e i principi della Costituzione non abbiano la stessa valenza che in Lombardia, che, pur di abbattere la ’ndrangheta, qui si lancino le reti a strascico, a chi piglia piglia, senza badare ai danni collaterali. I numeri non mentono: se l’8,7% di innocenza maltrattata, pur riprovevole, può infatti essere un fatto umano, fisiologico, non così il 47,6%. A ulteriore riprova, l’operazione Aemilia, avvenuta in Emilia Romagna, con 239 imputati e una percentuale di innocenti del 19,8%, non brillante quanto in Infinito ma nemmeno disastrosa quanto in Crimine. L’Italia, per essere giudice severo, si fa bastare le grancasse e i tamburi suonati allo spreco dopo le manette. Perché non conosce i risultati finali, non riceve notizie sulle inchieste che, in fase cautelare e giudicante, si sgonfiano più delle caramelle aspromontane alla chiusura del suono. È infatti facile reperire i dati degli arresti – ci pensano i media, con strombazzamenti impressionanti. È invece complicato trovare i numeri degli esiti processuali, con i giornalisti nazionali che abbassano la saracinesca e li tacciono e certuni locali, di carta e non, prostituiti da adoperare nell’attacco dell’articolo il cliché servile “Regge il quadro accusatorio della procura”, salvo poi scoprire che i tre gradi di giudizio hanno lasciato nella polvere le carcasse di un esercito di poveri cristi immolati all’ignoranza, alla superficialità, a disegni diversi dalla Giustizia. E proliferano i professionisti dell’antimafia, con organizzazioni leste a infilare in tasca i contributi da destinare alla trincea, con pubblici ministeri troppo smaniosi di manette – sono pochi ma incidenti, i più lavorano con merito al riparo di un’ombra che però li penalizza – con giornalisti asserviti e imboccati. Il risultato è che la popolazione aggiunge alla paura della ’ndrangheta quella per la giustizia – una paura certamente diversa, e tuttavia paura – e che l’innocenza maltrattata finisce con l’indebolire la Giustizia, con il farle perdere credibilità in una terra dove la credibilità è un elemento essenziale per guadagnarsi la fiducia e indurre a ricorrere alla Legge di fronte a un sopruso.