Non voleva che morisse. Gli aveva voluto bene. Pure Deborah Sciacquatori, diciannovenne di Monterotondo, una domenica mattina di maggio, ha ucciso suo padre. Il gesto liberatorio di chi non ne poteva più. Viene alla mente il ricordo di un fatto di tanti anni fa. In una borgata romana un ragazzino di 13 anni, si chiama Marco Caruso, grida papà, che c’è risponde lui. C’è che non ti posso più vedere, e spara. Spara e uccide quel padre padrone che si ubriacava, che picchiava la moglie e i due bambini. Una liberazione pagata cara, non solo con la morte del violento, ma con lo sconvolgimento della vita di chi, con premeditazione come nel caso di Marco, o con un atto di difesa e d’impeto come è accaduto a Deborah, ha segnato con quel gesto gli incubi futuri della propria vita.

Il maschio padrone non è una figura così rara, se non altro perché le statistiche dicono che una donna su tre ha ricevuto un certo tipo di “attenzioni” da parte di un uomo. E non è soltanto colui che si ubriaca e picchia. È piuttosto il frutto di un fenomeno culturale che si chiama possesso: tu moglie sei di mia proprietà, voi figli siete di mia proprietà, e io di voi posso fare quel che voglio. Non posso essere abbandonato e uccido. Non posso veder modificato il mio ordine mentale - spesso un ordine alterato da sostanze psicotrope che mi mostra come ostacolo qualunque figura umana di famiglia io abbia davanti agli occhi, e allora aggredisco e urlo, urlo e aggredisco.

Deborah non è un’assassina, e per fortuna questo sta per esserle riconosciuto dalla giustizia. Ma è una ragazza che ha rotto un tabù, quello dell’intangibilità del proprio padrone. Aiutata da quella pratica pugilistica cui proprio suo padre l’aveva educata, ha trovato nella forza dei propri muscoli la sua reazione, il suo gesto di liberazione. Non voleva uccidere e probabilmente neppure fare del male a un padre cui comunque voleva bene. Voleva solo fermarlo, supplicava che lui smettesse di spezzare le vite di tutte le donne della sua famiglia, la mamma e la nonna non vedente.

Pure quei gesti che sarebbero stati usuali, banali, in palestra o sul ring, hanno assunto un valore simbolico, un po’ come le parole (c’è che non ti posso più vedere) del piccolo Marco che hanno preceduto lo sparo contro il padre. Il significato è “si può”.

Ci si può liberare. Non con la logica belluina dell’occhio per occhio dente per dente, e non con l’omicidio, naturalmente. Ma con un gesto, che viene dalla mente e dal cuore. Un gesto che può essere un pugno o una telefonata o un urlo che susciti la condivisione del problema. Quel che è certo è che il vero complice del maschio padrone è il silenzio. Quello della donna, prima di tutto. La donna che ama e anche la donna che non ama più. Ma che continua a fidarsi dell’altalena “ti picchio e ti accarezzo” e “giuro che sono cambiato”.

Il gesto di liberazione è la rottura della fiducia, il coraggio di spezzare la parte malata della relazione. Quella tra il maschio padrone di moglie e figli e anche quella tra il piccolo maschio padrone e la madre, il cordone ombelicale in cui poi risiede l’origine del morbo. È paradossale vedere il lato positivo del gesto di Deborah, perché la ragazza, per quanto abbia compiuto un atto di legittima difesa, ha pur sempre in qualche modo provocato la morte di suo padre. È paradossale ma quel gesto ha in sé qualcosa di sano, di puro. Anche se tragicamente definitivo.