“I test psicoattitudinali: la selezione impersonale dei magistrati” è il titolo dell’articolo di Sarantis Thanopulos, presidente della Società Psicoanalitica Italiana, pubblicato sulla rivista di Magistratura democratica, Questione Giustizia, diretta da Nello Rossi. Abbiamo voluto approfondire con lo psicoanalista e scrittore alcuni aspetti.

Perché il progetto di introdurre test psicoattitudinali per l’accesso in magistratura sarebbe, come lei sostiene, inopportuno sul piano scientifico-psicologico?

Esiste il reale rischio che la psicologia si trasformi da strumento di comprensione dell’essere umano a uno strumento di controllo del suo modo di sentire, pensare e agire. Sui test bisognerebbe fare un po’ di chiarezza. I questionari usati per le ricerche, o a scopo diagnostico nel campo della psicopatologia, hanno una loro attendibilità relativa, ma comunque significativa. Richiedono una collaborazione del soggetto sottoposto all’indagine e il loro risultato è usato per meglio capire il suo malessere e prenderne cura. Tutt’altra cosa è l’uso dei test per indagare aspetti psico-attitudinali funzionali all’assegnazione di responsabilità lavorative. Questo è un uso interessato: valuta l’adattabilità mentale e comportamentale a un sistema di lavoro. Ciò che è misurato è il grado di adesione alla logica del sistema. I test sono usati per servire questa logica, non per la ricerca di una verità scientifica. Fatta la logica, si usano i test per consolidarla attraverso la selezione delle persone che devono applicarla. Finché si tratta di un’impresa che recluta il proprio personale secondo le proprie prerogative, giuste o sbagliate che siano, dell’assunzione di tecnici o della selezione di persone da addestrare per particolari tipi di missione, dove tutto è centrato sulla performance, questo può anche andare bene, ma non sarebbe male considerare il prezzo alto che paghiamo se funzioniamo come società puramente performante. Quando si tratta di un’istituzione fondamentale come la magistratura, che deve servire la giustizia e, in nessun modo, una logica di sistema, l’indagine psicoattitudinale è fuori luogo.

Il governo sarebbe intenzionato a introdurre i test Minnesota, che negli anni hanno subìto diversi aggiornamenti. Secondo lei presentano delle criticità?

Il test Minnesota, come il Rorschach, che va più in profondità, è uno strumento diagnostico utile nel campo della sofferenza psichica che, tuttavia, soprattutto nella comprensione del singolo individuo o di una famiglia, non può sostituire il colloquio clinico, può solo integrarlo. Nelle sue applicazioni parziali può essere uno strumento agile nell’indagine dell’umore o delle configurazioni emotive di realtà gruppali o di particolari categorie sociali, ma in questo campo è preferibile costruire modalità di indagini più mirate a cogliere la dimensione specifica di ciò che si indaga. È un prêt a porter, può piacere o non piacere, che più si allontana dalla clinica della sofferenza psichica e indaga attitudini psicologiche, più si altera nel suo funzionamento. Più in generale dobbiamo arrivare a comprendere che la criticità degli strumenti scientifici di carattere tecnico sta nel modo di usarli. Si possono usare in modo improprio, perché possono servire egualmente un buono o un cattivo padrone, o maestro.

Fabrizio Starace, presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica (Siep), interpellato dal Dubbio, ha osservato: «Chi svolge un’attività con grandi responsabilità, come appunto i magistrati, non dovrebbe temere il test. Mi stupiscono molto queste polemiche, soprattutto perché il test viene utilizzato nelle attività peritali che vengono svolte nell’ambito dei processi. E i magistrati per primi si avvalgono poi delle risultanze di questo test». Cosa ne pensa?

Sono legato a Fabrizio Starace da sentimenti di amicizia e di stima. Penso, tuttavia, che la prospettiva giusta non sia quella di vedere se si ha o meno paura di essere sottoposto a un test. Non mi sottoporrei mai a una prova che considero inutile, sbagliata o pericolosa, legittimandola, solo per dimostrare che ho la coscienza a posto. Ho serie perplessità sull’uso dei test nelle attività peritali nell’ambito dei processi. Ci vogliono molti e attenti colloqui con gli accusati di un reato per arrivare a una perizia decente. E poi l’istituto della perizia psicologica ha funzione di garanzia per chi si sottopone ad essa: la perizia può, in caso di colpevolezza acclarata, confermare o sconfermare la presenza di un’incapacità di intendere e di volere, una cosa di notevole complessità, a dire il vero. Non stabilisce se una persona è colpevole o meno. Sottoporre un aspirante magistrato a test psicoattitudinale e l’autore di un reato a perizia psicologica sono due cose diverse se non opposte.

Nell’articolo lei sostiene che i test sono inopportuni anche sul piano del funzionamento democratico delle istituzioni. Qualcuno potrebbe obiettare che alla società che lei presiede spetti solo una valutazione scientifica e non di altro tipo.

Questo qualcuno vorrebbe che le professioni di cura svolgessero un lavoro tecnico, dissociato dall’interesse comune che solo una polis democratica può garantire. Solo la democrazia può garantire un uso delle scoperte scientifiche che è al servizio dei desideri e dei bisogni reali di tutti i cittadini.

I favorevoli ai test sostengono che i magistrati hanno una grande responsabilità, quella di privare una persona della libertà personale.

Questa responsabilità è reale ed è un peso che grava sulle spalle dei magistrati. Affermare che chi ha una sofferenza psichica, ansia, angoscia, depressione, non sia in grado di assumere questa responsabilità è falso. Quando la nostra sofferenza è riconosciuta e vissuta, pur non essendo esibita, siamo più disposti a comprendere il peso delle nostre azioni, la loro ricaduta sulla vita degli altri. L’assenza di responsabilità, cioè la capacità di volere associata all’incapacità di intendere, abita chi disconosce il proprio dolore. E, nel farlo, manipola il suo mondo interno, le sue relazioni e le vite degli altri o contrae le sue emozioni e vive mimeticamente aderendo a tutti i luoghi comuni sociali, mentali e comportamentali. Non c’è test che possa individuarlo. Supera come un camaleonte tutte le prove di riconoscimento.

Sarebbe favorevole invece a introdurre i test durante l’espletamento delle funzioni, ad esempio ogni 4 anni?

Come strumento di pressione e di controllo nei confronti dei magistrati e di limitazione della loro indipendenza sarebbe molto efficace.

Molti sostengono: perché i magistrati no e i poliziotti e militari sì? L'impressione è che quella togata sia una casta intoccabile...

Altre sono le caste intoccabili e non mi riferisco ai politici. In ogni caso non è cosa seria equiparare il mestiere del poliziotto, del pilota d’aereo e del militare con quello del magistrato. Che Dio non voglia che il magistrato agisca come una persona che deve prendere decisioni cruciali per la vita di sé e degli altri senza avere tempo per riflettere, sedimentare le proprie emozioni ed elaborarle.

Lei stesso scrive che può esistere una "certa vulnerabilità psichica" che "può diventare cedimento e impedire l’esercizio sereno della propria attività" da parte del magistrato. E allora come prevenire questi fenomeni?

Mai la follia di un singolo magistrato è stata la causa di un errore giudiziario. Un po’ perché la follia non irrompe fulmineamente, molto perché le decisioni sono frutto di mediazioni articolate. Dibattimenti, diversi gradi di giudizio, la dialettica tra accusa, difesa e istanza giudicante escludono la decisione folle a meno di una follia collettiva che cancella il senso condiviso della giustizia, piuttosto che la capacità di giudizio del singolo magistrato. Trovo gravemente discriminatoria e anticostituzionale l’identificazione preventiva di persone che potrebbero destrutturarsi psichicamente in un futuro prossimo o lontano, la loro marcatura sociale e lavorativa. Chi perde il lume della ragione può essere collocato in modo temporaneo o duraturo fuori servizio e preso in cura.

Come si arriva alla figura di un magistrato responsabile?

Selezionando persone giuridicamente preparate, colte e dotate di pensiero critico. Quest’ultimo non lo si riconosce con i test.

Ogni anno ci sono in media 1000 ingiuste detenzioni. E spesso si osserva che “nessun magistrato paga”.

Le detenzioni ingiuste sono un problema serio e non lo si può risolvere attribuendolo in modo fuorviante all’instabilità emotiva del singolo magistrato. I veri danni li fanno il pregiudizio, cioè l’eccesso di stabilità emotiva, il conformismo, la cattiva fede e l’incompetenza giuridica. Non vedo alcuna utilità dei test nell’individuarli.

Secondo lei dietro la somministrazione di questi test potrebbe esserci solo la volontà politica di delegittimare la magistratura?

Non credo. Una parte della classe politica ha il dente avvelenato con i magistrati, ma non è lì la fonte della spinta maggiore ad affidare la loro selezione a metodi d’impresa. Temo che la tendenza di fare della tecnica, di un pensiero calcolatore avulso dalle emozioni e dai sentimenti, il motore delle funzioni istituzionali giochi un ruolo ben più importante. Di ciò dubito che la politica sia consapevole davvero.