Nessuna trattativa è possibile con chi usa la violenza, spiega Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale e ministro della Giustizia del governo Prodi. Che condanna fermamente i disordini delle scorse ore, dopo le azioni dimostrative degli anarchici in Italia e in Europa finalizzate ad attirare l’attenzione sul caso di Alfredo Cospito, il detenuto anarchico che dal 19 ottobre è in sciopero della fame contro il regime detentivo del 41 bis. «Non si possono mercanteggiare i provvedimenti giudiziari attraverso azioni di questo genere: lo Stato può e deve rispondere con gli strumenti che ha a disposizione», spiega Flick. Ma ciò ricordando la ratio del cosiddetto “carcere duro”: «Serve a interrompere la comunicazione con le organizzazioni criminali all’esterno - sottolinea -. Non è possibile utilizzare questo strumento per aggravare la pena facendola diventare più dura»

Gli anarchici sono scesi in piazza, in Italia e all'estero, per protestare contro la scelta di sottoporre e mantenere Cospito al 41 bis. Come giudica queste manifestazioni? Complicano la sua posizione?

Innanzitutto è necessario chiarire che non posso dare un giudizio sulla decisione di sottoporre Cospito al 41 bis, non conoscendo la situazione e non avendo alcun titolo per intervenire su casi concreti. Su questo tema ci sono tre problemi distinti. Il primo è che sono assolutamente da rifiutare situazioni di violenza in vista di una “trattativa” per indurre a modificare una legge o una decisione dell’autorità giudiziaria. Non è una strada percorribile. Non si possono mercanteggiare i provvedimenti giudiziari attraverso manifestazioni di questo genere e non è certo la violenza di piazza che può far cambiare idea alla magistratura. Voglio sottolineare con forza che le violenze vanno represse con il rigore e la fermezza degli strumenti di legalità che lo Stato ha a disposizione. Violenze di quel genere possono addirittura influire negativamente sulla situazione del detenuto, perché possono, in qualche modo, diventare argomento per sottolineare la necessità dell’applicazione di un certo provvedimento - in questo caso del 41 bis - per evitare contatti con l’esterno. Inoltre rischiano di perseguire obiettivi politici, come il far apparire questa persona come un martire, soprattutto se dovesse completare il suo proposito e questo non è accettabile, a mio avviso. E non credo che sia nell’interesse di Cospito, ma non spetta a me giudicarlo.

Qual è il secondo problema?

Riguarda la legittimità del provvedimento adottato. La via è quella del ricorso al giudice, come prevede l’articolo 41 bis, il reclamo al giudice di sorveglianza e il ricorso per Cassazione affinché valuti se c’è una violazione di legge nel rigetto del reclamo da parte del giudice di sorveglianza. I tempi tecnici non possono che essere stabiliti dalla Suprema Corte e mi auguro che la decisione arrivi il più presto possibile. Per il resto non voglio addentrarmi nel merito: non solo non conosco gli atti, ma il rispetto che ho per la magistratura mi impone di astenermi da qualsiasi tipo di valutazione.

In termini generali, c’è il rischio di trasformare il 41 bis in uno strumento diverso a quello per cui è stato pensato?

Il 41 bis è un istituto che, come ha più volte sottolineato la Corte costituzionale, è finalizzato esclusivamente ad impedire comunicazioni della persona condannata per reati di particolare gravità - e che sono indicati dalla legge - con l’organizzazione criminale all’esterno. Non è possibile, alla luce della giurisprudenza della Corte, utilizzare il 41 bis per aggravare la pena facendola diventare più dura. La pena è la limitazione della libertà personale. In questa limitazione, la pena non può essere ulteriormente aggravata con un particolare trattamento di rigore. Né il trattamento di rigore può essere utilizzato per indurre il detenuto a confessare, ammettere fatti o stimolare una collaborazione con l’autorità. Aggiungo, ma è chiarissimo nella legge, che l’applicazione di una misura di questo genere dev’essere temporanea ed ha carattere di eccezionalità, rispetto a quello che è il diritto del detenuto al trattamento. Questo in generale, a prescindere dal caso specifico.

E il terzo problema?

Credo che la responsabilità di evitare che un detenuto ponga in essere un suicidio spetti all’amministrazione penitenziaria ed al suo vertice, che sale fino al ministro. Tra l’altro il ministro è colui che prende il provvedimento di sottoposizione al 41 bis. È vero che non è esplicitamente prevista una possibilità di revoca da parte del Guardasigilli, ma sono convinto che pur nel silenzio della legge sia ovvio il principio liberale per cui l’autorità che ha emanato un provvedimento amministrativo possa revocarlo, quando ne vengano meno i presupposti. Comunque, il problema qui non sono la revoca del provvedimento e la sua legittimità, ma ciò che riguarda le condizioni sanitarie del detenuto. Indipendentemente dal dotto dibattito su ciò che può fare il ministro, non credo sia il caso di entrare in dispute di carattere tecnico-giuridico. E credo che sia dovere dell’autorità che gestisce le carceri verificare se tuttora sussistono le condizioni che hanno giustificato l’adozione di tale provvedimento. Se vi è una situazione di emergenza o di rischio di emergenza, l’amministrazione penitenziaria dovrà valutare se il carcere in cui la persona è sottoposta al 41 bis abbia gli strumenti per reaazgire. Non conoscendo le condizioni sanitarie di Cospito prendo atto di ciò che ha detto il Garante delle persone private della libertà Mauro Palma, che ha parlato di una situazione di pericolosità che potrebbe aggravarsi e diventare addirittura irreversibile. Se le cose stanno in questi termini è giusto quello che sottolinea il Garante, cioè che sia necessario trasferire il detenuto in un istituto dotato di risorse cliniche sufficienti a fronteggiare un’eventuale emergenza. Ed è quello che è stato fatto, data la notizia del trasferimento nel carcere di Milano Opera. Non vedo come si possa anteporre un discorso di carattere tecnico-giuridico alla necessità di evitare che un proposito di suicidio venga portato a termine. Anche perché di suicidi in carcere ne abbiamo avuti fin troppi.