Giovanni Tartaglia Polcini è uno dei massimi esperti italiani di corruzione. È stato pubblico ministero dal 1996, per quasi vent’anni anni, nel distretto della Corte di Appello di Napoli. È tra i componenti del comitato scientifico dell’Eurispes, forse l’istituto di ricerca italiano che ha compiuto le analisi più originali nel campo della giustizia.

Consigliere, il tema della corruzione in passato è stato affrontato in maniera così ideologica da tramutarsi in una vera e propria “caccia alle streghe”?

Questa domanda richiede una risposta necessariamente di tipo tecnico, partendo dal lavoro del gruppo anticorruzione del G-20 nel 2014. All’epoca c’era un contrasto forte a livello internazionale sulle modalità di approccio alla corruzione. I membri del gruppo di lavoro anticorruzione del G-20 convennero su un documento intitolato Quali sono le relazioni intercorrenti tra la corruzione e la crescita economica?”. In quel testo si enumerano tutte le conseguenze negative della corruzione, come la corruzione incide sullo sviluppo, sull’esercizio delle libertà fondamentali, sulla possibilità di estrinsecare le normali attività del quotidiano, sull’allocazione delle risorse e sulle performance della Pa. Si tratta di un censimento molto interessante. Va fatta, però, riprendendo la sua iniziale domanda, una precisazione.

Quale?

Il G-20 fa riferimento alla corruzione in senso stretto. Se noi diamo alla definizione corruzione un altro significato e facciamo riferimento a ogni forma di devianza dell’amministrazione, il discorso cambia. Non possiamo pensare di applicare le disposizioni e le posture di prevenzione e repressione ai fatti di corruzione, intesi in senso stretto e proprio, cioè della devianza dell’azione amministrativa in cambio di un illecito profitto, promesso o assicurato, a qualsiasi forma di patologia dell’azione amministrativa. Questo è il limite di alcuni approcci alla corruzione come fenomeno illecito.

Il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, ha sottolineato, in un suo recente intervento, il legame tra giustizia ed economia. Si è soffermato sulla ragionevole durata dei processi e sulla ragionevole prevedibilità dell’esito degli processi. Due aspetti che si saldano a vicenda?

Non posso che concordare sul fatto che la durata dei processi abbia un impatto sullo sviluppo dell’economia. Nel contempo, io sono un forte propugnatore dei principi dello Stato di diritto. Questi prevedono la totale autonomia e indipendenza di chi è chiamato a giudicare sui fatti umani e sugli accadimenti della realtà umana. L’imprevedibilità dell’esito di una procedura è per me un valore. Così come è un valore la presunzione di innocenza, che, mi permetto di sottolineare, va riaffermata e valorizzata. Non mi piace una certa deriva, non mi riferisco allo scritto del presidente Flick, ma mi ricollego a un concetto che si afferma spesso a livello internazionale e nel lessico, quasi che la lotta alla corruzione sia efficace e dimostrata solo quando si ottengono le condanne. Mi sembra questo un modo di vedere le cose un po’ retrospiciente. Quello che conta è il controllo penale, che, però, può concludersi anche con una piena assoluzione. Una sentenza che fa la ricostruzione della realtà può concludersi con un non riconoscimento di responsabilità. Questo non significa che un sistema è fallace o non contrasta la corruzione. Semmai, è semplicemente un valore aggiunto, che è quello di non avere un approccio eccessivamente settario, un approccio etico, più che di tipo giuridico, dal quale è, forse, sempre il caso di rifuggire.

I fenomeni corruttivi hanno diversa connotazione nel Nord e Sud dell’Italia?

Non penso vi siano costanti che possano dare la stura a una ricostruzione quasi orientata territorialmente dei fenomeni corruttivi. Sono convinto che la corruzione rappresenti un pericolo di infiltrazione anche del crimine organizzato. Da un lato nell’amministrazione della cosa pubblica, perché l’infiltrazione avviene attraverso la corruzione, dall’altro lato nell’economia legale attraverso il riciclaggio di capitali illeciti. Faccio riferimento alla corruzione come oggetto di un approccio olistico. Una corruzione, cioè, intesa come l’insieme di quelle condotte che portano il crimine organizzato, sotto un certo profilo, a inquinare la nostra società. Il nostro paese ha un ruolo storicamente di pioniere nel comprendere questi fenomeni e nell’affrontarli nel migliore dei modi. Non a caso a livello internazionale ci arrivano richieste sul piano dell’assistenza tecnica. In Italia ci siamo resi conto per tempo di questo fenomeno, abbiamo messo in piedi uno statuto di verifica, controllo e prevenzione. Gli esperti italiani sono i più richiesti a livello mondiale. Nel contempo, però, aggiungerei un’altra cosa.

Prego, dica pure…

Io rifuggo da tutti gli approcci di tipo percettivo. Nella sua precedente domanda credo che vi fosse una contaminazione legata a quel concetto, che è la percezione della corruzione, che poi è alla base di alcuni indici internazionali dai quali deriva una sorta di classifica dei buoni e dei cattivi. Io ho sempre pensato che approcciare il tema della corruzione solo sulla base di indici percettivi possa dare luogo addirittura a paradossi. Eurispes, nel 2017, ha condotto una ricerca scaturita nella pubblicazione intitolata “La corruzione tra realtà e rappresentazione. Come si può alterare la reputazione di un paese”. In questo volume ci siamo soffermati su quello che abbiamo chiamato il “paradosso di Trocadero”. Consiste in questo: più combatti la corruzione, più la rendi percepibile. Il Paese che più si impegna, per una serie di ragioni, a contrastare un fenomeno e lo fa senza alcun tipo di calcolo da un punto di vista reputazionale, se sottoposto ad un vaglio solo esclusivamente percettivo, è penalizzato.