Dalle finestre di casa, Claudio Petruccioli vede scorrere il Tevere. Un fiume che ha visto millenni di storia. E allora proprio alla storia occorre aggrapparsi per capire cosa sta succedendo in Italia ed in Europa, qual è il valore delle elezioni del 4 marzo e cosa significheranno. «C’è un continuum, un percorso storico- politico - spiega l’ex presidente della Rai - che contraddistingue sia l’Italia che l’Europa, e le elezioni del 4 marzo ne rappresentano un tappa decisiva. Non nel senso che saranno risolutive. Piuttosto nel senso che saranno rivelatrici degli equilibri che condizioneranno il futuro. Le democrazie liberali stanno in piedi e risultano efficaci se garantiscono due cose essenziali: governabilità e alternanza, cioè fisiologico ricambio dei governi sulla base della volontà degli elettori».

Di cosa stiamo parlando esattamente?

È come se fossimo alla guida di un’auto e avessimo due pedali a disposizione. Uno è quello politico, l’altro quello istituzionale.

Questa dei due pedali poi me la spiega meglio. Ma intanto rigiro il concetto: sta dicendo che stiamo andando in malora sia noi che la Ue? È questo il punto?

No, quello casomai è il rischio. Vedo che girano sui giornali paralleli storici con il 1919 o riferimenti a preoccupazioni già presenti nell’ultimo discorso di Aldo Moro. Lo considero un bene; è il segno che ci si interroga non solo su chi governerà dopo il 4 marzo ma anche e soprattutto sulle condizioni, i meccanismi, la possibilità stessa del governare. Un problema aperto drammaticamente in Italia ma presente anche in Europa. La rilevanza europea delle elezioni italiane non è legata solo all’esito immediato; anche se non si può sottovalutare la possibilità che i partiti ufficialmente anti Europa ( Cinque stelle, Fratelli d’Italia e Lega) raccolgano la maggioranza dei voti popolari. Non ne scaturirebbe ( forse) una maggioranza di governo; ma possiamo star certi che fra i nostri partner un risultato del genere alimenterebbe fortissime preoccupazioni.

Un’Italia che si discosti dall’orbita europea renderebbe assai più difficile alla stessa Ue pensare al proprio futuro in modo costruttivo. Capisco che gli italiani siano incerti su come usare il voto. Ma che disertino i seggi perché considerano la prossima consultazione priva di rilevanza, beh questo è incredibile. Sarebbe un atto di devastante masochismo politico, un altro segno dell’impoverimento culturale di cui siamo testimoni.

Però è senso comune, Petruccioli.

Lo dicono tutti: il risultato del voto sarà lo stallo. O no?

Sicuramente non saranno elezioni risolutive, l’ho detto. Saranno elezioni rivelatrici delle condizioni per la governabilità in Italia ma anche in tutto il vecchio continente; capisco che Junker – e altri con lui – siano preoccupati. Cerchiamo di collocare la vicenda italiana nel contesto più ampio della storia recente dell’Europa. Superato il primo decennio del dopoguerra, sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso, si pose la questione di rendere più efficace e anche più aperta la funzione di governo. Si pose nelle principali democrazie dell’Europa occidentale: in Francia, in Germania. I pedali disponibili per raggiungere l’obiettivo - ecco la spiegazione - sono due: uno è quello politico, il ruolo dei partiti e il rapporto tra di essi; l’altro è quello istituzionale. Quanto più è produttivo il pedale politico, tanto meno è necessario ricorrere a quello istituzionale, e viceversa. In Germania la questione venne risolta esclusivamente con mezzi politici, con la Grande Coalizione ( 1966- 69) che scontava il rinnovamento dei socialdemocratici a Bad Godesberg ( 1959): Brandt diventerà poi Cancelliere nel ‘ 72 dopo la vittoria elettorale. In Francia, al contrario, si usò il pedale istituzionale con la quinta repubblica gollista ( 1958). Anche in Grecia si affrontò il problema con il colpo di Stato antidemocratico dei colonnelli del 1967; che, non a caso, non avrà vita lunga.

In Italia il tema fu affrontato “alla tedesca”, cioè con mezzi esclusivamente politici, ma dopo che era fallito il tentativo di riforma elettorale del 1953. Il Psi fu cooptato in quella che allora si chiamava l’area democratica, cioè le maggioranze intorno alla Dc. L’operazione non ebbe successo e il problema passò irrisolto agli anni ‘ 70. Lì, ci fu il tentativo di Enrico Berlinguer di trovare una soluzione riprendendo la linea di Togliatti: unità delle grandi forze popolari e democratiche che fondarono la Repubblica, per garantire un assetto stabile di governo ( il compromesso storico). Un tentativo anche questo fallito poiché minato da una intima contraddizione: escludeva il ricambio e l’alternanza tipiche di un sistema liberale. Non a caso sia a destra che a sinistra immediatamente scattò l’allarme contro il “regime”.

Pur in presenza di partiti assai forti, il ricorso al solo pedale politico non dette in Italia i risultati sperati, né con l’alleanza Dc- Psi né con la convergenza Dc- Pci: ma l’uso del pedale istituzionale veniva allora rigorosamente escluso, per cui l’alternanza continuò ad essere una chimera e la governabilità continuò a indebolirsi. Sa- rebbe stato necessario attivare meccanismi in grado di garantire il ricambio e l’alternanza al governo; De Gaulle non prese certo il potere con l’idea di consegnarlo ad altri, ma introdusse una costituzione semipresidenziale che lasciava aperta la competizione. Nel 1981 infatti Mitterrand conquistò l’Eliseo, ma già nel 1965 aveva costretto De Gaulle al ballottaggio e nel 1974 con Giscard d’Estaing era stato un testa a testa ( 50,8% contro 49,2).

Veniamo all’Italia. Da noi che successe?

Da noi, quando la Prima repubblica giunse a estrema consunzione, con i referendum 1991/ 93 si aprì la strada al maggioritario; a partire da lì c’è stato il tentativo di usare entrambi i pedali per attivare il bipolarismo e l’alternanza, ma è fallito. Le carte politiche innovatrici, a cominciare dall’Ulivo sono saltate perché i partiti tradizionali – grandi e piccoli - non volevano cedere neanche una quota del proprio potere. Inoltre, il pedale istituzionale è stato usato in modo ambiguo e reticente con faticose manipolazioni della legge elettorale. Si pensi che il Mattarellum, per eleggere il Parlamento chiamava gli elettori a esprimersi con due schede, una maggioritaria e una proporzionale; caso unico al mondo. In sostanza, i partiti erano troppo deboli per produrre innovazioni politiche robuste e durature ma erano sufficientemente forti per bloccare riforme istituzionali che mettessero nelle mani dei cittadini elettori governabilità e alternanza. La Bicamerale di D’Alema ( 1997) non è arrivata neppure al voto del Parlamento, le riforme costituzionali del centrodestra prima e del centrosinistra dopo, approvate in Parlamento sono state respinte nei referendum.

Nei due referendum del 2006 e del 2016 si tratta di un no espresso da milioni di italiani. Non contano?

Certo che contano, e molto; penso anzi che dobbiamo ancora scoprire tutti gli effetti di quelle scelte. Nei decenni scorsi non siamo riusciti ad attivare le innovazioni politiche e/ o istituzionali che i nostri partner hanno realizzato con successo. Per di più, adesso, si ripresenta un tornante che ricorda quello affrontato fra la fine dei ’ 50 e i primi ’ 60. Perfino la Germania e la Francia sono chiamate a nuove sfide. In Germania si tenta un estremo ricorso alla Grosse koalition; ma questa “risorsa” tedesca nel 1966 poteva contare su quasi l’ 80% degli elettori, alla seconda edizione nel 2005 era capace di raccoglierne ancora quasi il 70%, a settembre scorso i voti di CDU/ CSU e SPD assommano tutti insieme a meno del 54%. E’ evidente che perfino lì il solo pedale politico non garantisce più la tenuta di strada. In Francia, la forza delle istituzioni ha consentito e ( sembra) metabolizzato un rinnovamento politico che, con Macron, ha spazzato via i protagonisti della politica negli ultimi decenni, sia a destra che a sinistra.

C’è, poi, l’Europa, intesa come Unione che deve trovare le forme di governo adeguate alle sfide della globalizzazione, immigrazione in primis; senza dimenticare, come abitualmente si fa, le conseguenze della fine comunismo sovietico. L’allargamento della Ue ai paesi dell’Est è stato giusto, perfino doveroso; ma ne derivano problemi serissimi. Nella esperienza storica di molti di quei paesi il liberalismo è scivolato via come l’acqua sul marmo. Con una battuta si potrebbe dire che l’ultima liberale della Russia è stata l’imperatrice Caterina che interloquiva con Voltaire. Se l’Unione Europea non risolve bene la questione del suo governo, è alta la probabilità che finisca anche come Unione.

E ritorniamo ai pedali. Giusto?

Per forza. Sappiamo già che dopo il 4 marzo, la nostra situazione politica e istituzionale sarà più fragile e carente di oggi. Del resto fenomeni di eguale portata stanno accadendo dovunque. Gli aggregati che hanno dato stabilità, consentito la governabilità e nello stesso tempo l’alternanza, non funzionano più. Anzi non ci sono proprio più. Prendiamo la sinistra: come è possibile aggregarla su basi accettabili? La domanda si pone in Italia come in Francia, Germania, Inghilterra, Spagna. Anche a destra il fenomeno è simile. Qui da noi l’abbraccio tra Forza Italia e Lega è puramente strumentale, lo vedono tutti. L’idea di trovare le soluzioni affidandosi alla volontà sovrana di questi soggetti politici, all’uso, cioè, del solo pedale politico è illusoria e può risultare rovinosa.

Per questo non ho condiviso l’allarme di tanti per l’Italicum. Dicevano: c’è il rischio che vincano i grillini. E allora? Se c’è il ballottaggio, si può vincere o perdere. È così che si realizza il rinnovamento della politica. Se andassero a un ballottaggio i Cinquestelle, sicuro che vincerebbero? E, comunque, se vincessero, ci rivedremmo alla prossima elezione. È evidente che a uno come me Trump non piace. Ma Trump che conquista la nomination repubblicana e vince è un fatto che innova, che cambia nel profondo i partiti e la politica negli USA. In Francia il ballottaggio è stato tra Macron e Le Pen uno la sinistra, l’altra la destra: quelle di oggi, non quelle di ieri. L’importante è che ci siano istituzioni robuste che incanalano e disciplinano le innovazioni; e che, nello stesso tempo, le consentono. L’Italia è, purtroppo, un laboratorio che dimostra come istituzioni deboli e renitenza alla innovazione politica si sostengono ( e si aggravano) a vicenda.

Alle strette. Cosa succede dopo il 4 marzo?

La prima cosa che auspico è che l’uso del pedale politico non sia contrastante con le esigenze di rinnovamento istituzionale. Bisognerà trovare una via d’uscita: per farlo non si potrà far riferimento solo alla contingenza; si dovrà aver chiaro che in Italia siamo chiamati a fare i conti con problemi che abbiamo già avuto di fronte e non abbiamo risolto per scarsa lungimiranza, per debole determinazione, per ottusa e arcigna difesa di interessi consolidati. Avendo altresì chiaro che la prospettiva è europea. Chi ragiona solo in un’ottica nazionale ( il cosiddetto “sovranismo”) di fatto punta a sfasciare l’Europa. E allora non affonderà solo l’euro: riprenderà il sopravvento una “politica di potenza” terribilmente anacronistica e, proprio per questo, quanto mai pericolosa: una politica che, in base all’esperienza storica, sfocia nella guerra. Lo tengano bene a mente i tanti apprendisti stregoni che circolano.

L’auto e i due pedali che cita appaiono una specie di sogno, bello e impossibile. Dov’è la consapevolezza necessaria? Dov’è la classe dirigente capace di avviare un simile percorso?

Continuiamo a lamentarci sostenendo che in Italia la classe dirigente è scarsa e debole. Ebbene da cosa si misura una classe dirigente se non dal modo in cui intende affrontare la funzionalità del sistema politico- istituzionale italiano nell’ambito di quello europeo? E soprattutto dalla necessità e dall’urgenza di un simile compito? Il banco di prova è questo

Petruccioli, ce l’ha o no una ricetta precisa da suggerire?

Certo. In Italia ( e non solo) per risolvere il tema della governabilità, è necessaria una riforma istituzionale che preveda un voto risolutivo. Se si vuole anche per eleggere il Presidente della Repubblica lasciandone immutati i poteri; ma non deve essere necessariamente così. Il punto è garantire un decisivo voto di indirizzo da parte dei cittadini, in una competizione tra leader, schieramenti proposte di governo che si concluda, se necessario al ballottaggio, con un confronto a due. Sono temi sciaguratamente assenti dalla campagna elettorale. Colpevolmente assenti, perché tutti sanno che incombono in modo ineludibile.

Ed in questa operazione i Cinquestelle devono essere coinvolti?

Ovvio che devono esserlo; e, d’altro canto, né loro né nessun altro può restarne fuori, neppure se lo volesse. Certo, non possiamo affidarci solo alla forza delle cose; sono necessarie iniziative e assunzioni di responsabilità. Se avessi voce in capitolo direi: cari signori, sul tavolo non va messo solo un possibile accordo di governo con i numeri usciti dalle urne. Sul tavolo va messa anche la necessità di trovare un accordo di sistema. E a mio avviso non può essere altro che un meccanismo che consenta agli elettori di scegliere l’indirizzo politico da cui deve scaturire il governo del Paese. Del resto perché mai i Cinquestelle dovrebbero essere contrari visto che, secondo i sondaggi, sono la prima forza politica? Si tratterebbe di una competizione in linea con il loro proposito di governare da soli. Per poterlo fare, serve una intelaiatura istituzionale che lo consenta.

Secondo lei tocca a Mattarella porsi alla guida di questo processo? È il Colle che deve invitare a spingere entrambi i pedali?

Guardi che un cambiamento di fatto sul ruolo e i poteri del Presidente c’è già stato. Sono sette anni che se non fosse stata attivata la “fisarmonica” dei poteri del Colle, non ci sarebbero stati governi. E vuole che dopo un 4 marzo secondo le previsioni generali inconcludente, il peso di questo cambiamento non si farà sentire? Lo stile di Mattarella lo vedremo, ma da noi, quando le cose si complicano, la palla va nelle mani del Quirinale; e dopo il 4 marzo, il panorama sarà perfino più complicato di oggi. E crescerà l’esigenza di attivare il pedale istituzionale.

Eppure c’è chi chiede un voto bis a stretto giro: altro che doppio pedale...

Mercoledì scorso ho letto gli articoli di Ugo Magri e Lina Palmerini, chiaramente frutto di un colloquio con interlocutori autorevoli e affidabili del Quirinale. Ne ho ricavato che se ( come è più che probabile) dalle urne non uscirà una maggioranza evidente il Colle non procederà in modo affrettato. Negli articoli si legge che il tempo, in casi del genere, è esso stesso una “risorsa politica”, che anche i tentativi non coronati da successo sono utili per far posare la polvere e “decantare” la situazione. Sì, viene usato proprio il termine “decantare” tipico della “prima repubblica”. Non si andrà dunque a elezioni politiche in tempi strettissimi; anzi, si svolgerà senza fretta la matassa delle difficoltà, in modo che risultino chiare a tutti. Mi sono chiesto – e chiedo a lei : è possibile che questo film se non al rallentatore “a passo ridotto”, si svolga senza che trovi voce ( anzi, voci) la necessità di una riforma istituzionale del tipo che ho detto. Gli italiani dovrebbero essere tutti ciechi e sordi: non lo credo. E, comunque, con un esito del voto come quello che si prevede, il Quirinale dovrà estendere come mai prima la fisarmonica; il che non sarà senza conseguenze.