GIUSEPPE BELCASTRO*

Scrivere di carcere è diventato assai difficile.

Il rischio di essere fraintesi - in certa misura fisiologico su temi così delicati - è oggi una quasi matematica certezza. Ci sarebbe da chiedersi cosa sia cambiato nella terra di Beccaria, perché sia diventato così complicato ragionare su temi cruciali del vivere collettivo; se non fosse che anche le possibili risposte corrono sul crinale del misunderstanding epistemologico.

Proviamoci lo stesso però, partendo da un esempio, come ce ne sono tanti.

Raffaele Cutolo ha commesso efferati delitti; ha meritato diversi ergastoli; li sta scontando da lunghissimo tempo ( dei suoi 79 anni, ne ha trascorsi in detenzione circa 55 e 25 di questi al regime del 41- bis o carcere duro, come lo chiama più spesso chi di carcere sa poco o nulla).

Raffaele Cutolo, come tutti i detenuti, è un uomo: la loro dignità e il loro diritto alla salute non possono essere conculcati a nessun costo e per nessuna ragione, perché essi restano uomini e non sono la somma dei delitti che hanno commesso.

Entrambi gli assunti sono incontestabili: se non li si può condividere integralmente è pressoché inutile proseguire nella lettura. Meglio una birra fresca, lo sguardo fisso all’orizzonte. Se invece si è scelto di andare avanti, si converrà che la questione attinge la ragione stessa del carcere come reazione all’illecito e che la partita si gioca proprio sull’equilibrio tra quei due cardini del sistema. In altre parole, ciò che definisce la giustezza della sanzione è l’equilibrio tra la necessità di far sì che essa sia proficua e l’impedire, al contempo, che annichilisca il punito.

Che poi sono due prospettive diverse per rispondere alla stessa domanda: perché gli individui vanno in carcere? A ben vedere la questione è tutta lì; basta accordarsi sul perché si finisce in carcere e il gioco è fatto.

Però, nell’accordarsi, sarà bene tenere a mente innanzitutto che il rischio più grave nell’operare scelte così è quello di indulgere alla tentazione di vellicare gli istinti bassi di una collettività nutrita a fandonie e urla da certe stampa e politica, non sempre acculturate in materia e a volte nemmeno in buona fede. Ma sarà pure bene tenere a mente che i Padri costituenti la scelta in realtà l’han già fatta: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” ( Art. 27 della Costituzione). Dunque, se ci si vuole discostare da questa visione, sarà bene operare per cambiare la Carta. Oppure emigrare.

Posto però che le modifiche alla Carta sul punto richiedono risorse politiche ( e, prima, culturali) che non si scorgono all’orizzonte e ipotizzando pure che nessuno voglia lasciare il Belpaese, non resta, per il momento, che attraccare sul molo solido e sicuro dell’articolo 27.

Adesso torniamo all’esempio, fissando preliminarmente tre punti. Primo punto. Quale potenziale rieducativo può esprimere una pena eseguita quasi ininterrottamente per tempi lunghissimi ( nell’esempio in discorso 55 anni) e senza la prospettiva nemmeno teorica di una risocializzazione del reo? Una pena così, non solo non rieduca, ma deresponsabilizza, perché sterilizza in radice ogni pulsione redimente, cancellando, subito e per sempre, la prospettiva anche solo teorica del rientro in società.

Secondo punto. Cosa hanno a che vedere l’esecuzione della pena e la sua funzione rieducativa con la sospensione delle regole ordinarie del trattamento penitenziario ( leggi: 41- bis)? Nulla. Lo scopo della sospensione trattamentale - sarà bene informarne lo stuolo di non sempre consapevoli sostenitori - è quello di tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza ( qualunque cosa con ciò si voglia intendere) interrompendo i contatti del detenuto con la consorteria di riferimento.

Terzo punto. Alla domanda se il diritto alla salute sia recessivo rispetto alle esigenze che l’esecuzione della pena e la sospensione trattamentale mirano a tutelare, la risposta è no. Checché ne pensino coloro che, con giugulari gonfie o penne leziose e fintamente ironiche, quotidianamente invocano l’inasprimento del “carcere duro” e l’innalzamento scriteriato delle pene, il diritto alla salute resta prioritario e i diritti vanno sempre garantiti, persino a coloro che hanno avuto sprezzo di quelli altrui.

Ora, se per davvero Cutolo ( e il discorso è identico quale che sia il nome del detenuto) è oramai un inerte ottantenne, ridotto su una sedia a rotelle e privo di reazioni, affetto da plurime e invalidanti patologie e incapace persino di portare una bottiglietta d’acqua alla bocca, e se non risultano contatti attuali con consorterie criminali, consegue che né le ragioni della pena, né quelle del trattamento di rigore hanno più la possibilità di essere onestamente invocate per mantenerlo in detenzione carceraria a dispetto della condizione di salute o addirittura per rifiutare l’accesso in carcere del medico di fiducia dei suoi familiari.

Ciò che distingue lo Stato dal criminale è proprio la capacità di rispettare il diritto, che del primo è l’essenza, togliendo al reo solo ciò che gli va tolto ( la libertà) e mai, proprio mai, ciò che gli appartiene ineluttabilmente e che nessuno quindi, men che mai lo Stato, ha il diritto di togliergli ( la dignità). Esiste ancora una differenza tra il carnefice, la vittima e lo Stato. Chi deve lo affermi con chiarezza. Oppure emigri.

* Avvocato, consigliere della Camera penale di Roma