Forse serve uno sforzo di immaginazione. Ma c’è un elemento che lega la piazza delle ragazze iraniane alla mobilitazione di oggi, in Italia, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, che si proporrà anche come atto di sintesi di una protesta nata dentro i social e nell’opinione pubblica dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin.

Quell’elemento è tessuto intorno a un dato ricorrente che attraversa la Storia: l’uso politico del corpo delle donne, la cui liberazione passa anche attraverso la “rabbia”. Che può essere motore del cambiamento, come spiega benissimo Barbara Stefanelli, vicedirettrice vicario del Corriere della Sera. Fondatrice de “La27ora” e del Tempo delle donne, la giornalista intercetta storie e volti delle giovani che hanno dato vita al movimento iraniano, dal settembre 2022, per sottrarli all’indifferenza e «all’intermittenza emotiva» a cui ci costringe la cronaca. Le fa camminare davanti a noi, nella strada per il cambiamento, come suggerisce il suo libro edito da Solferino, Love harder, “amare più forte”.

In quale senso? La risposta è nel brano dell’artista londinese Kae Tempest, da cui Stefanelli trae il titolo del volume. «Quando tutto si infiamma, noi innamorati impariamo a essere guerrieri; quando il buio diventa nero, noi guerrieri impariamo ad amare più forte». È il connubio amare-combattere, la «chiave di tutto – spiega la giornalista –, la disponibilità a lottare nell’amore». Con la rabbia che da scintilla si trasforma in qualcosa di nuovo. Qualcosa di molto diverso «dall’emozione nera, negativa, a cui siamo abituati a pensare». «Ne ha parlato a lungo anche Michelle Obama, riferendola alle battaglie della popolazione africana per chiudere tutte le asimmetrie che persistono della società degli Usa – spiega Stefanelli -. Il problema di tutto quello che sta accadendo ora in Italia, è riuscire a spostarsi dalla rabbia a una fase strategica che possa innescare cambiamenti, normalmente lentissimi, e che invece un sentimento condiviso può accelerare».

Un «passaggio virtuoso», dunque, un sentimento che muove da un fatto che colpisce particolarmente le coscienze: l’omicidio di Giulia, per noi, il massacro di Mahsa Amini, per l’Iran. Una ragazza di 22 anni a cui è stata spezzata la giovinezza per una ciocca di capelli che le usciva dal velo. Proprio da lì bisogna partire, da quel velo che «è simbolo e materia», come spiega Stefanelli, che da elemento di oppressione diventa «il punto di passaggio di tutta una architettura di sottomissioni che ormai scricchiola e deve cadere». Lo dimostra l’esperienza di Nasrin Sotoudeh, l’avvocata per i diritti umani rilasciata su cauzione dopo l’ennesimo arresto arbitrario da parte del regime, e anche la ribellione di Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace nel 2023. Il loro impegno è anche un tributo al sacrificio di tutte le donne - incarcerate, stuprate, pestate a morte, giustiziate – che trovano ancora il coraggio di compiere la loro rivoluzione, qualcosa di più che “rivolta”.

«Sono loro, le giovani generazioni che ci hanno chiesto di chiamarla così, cercando di segnalare l’inizio di un cambiamento che non è uno di quei tanti passaggi di cui l’Iran è stato testimone, fiammate spente nella repressione. Una rivoluzione che non è finita, perché non si è mai visto dal 1979 un fluire così denso di ragazze che camminano a testa scoperta». Ciò che lega loro a noi è quello che Stefanelli chiama «desiderio», la miccia che non è altro se non un punto di partenza, uguale per tutti: la consapevolezza del proprio desiderio di libertà. «Chi produce delle infrastrutture per cui immagina distanza tra i desideri nostri e di chi abita a oltre tremila chilometri di distanza fa una manipolazione – riflette Stefanelli -. È riconoscendoci nei desideri che possiamo combattere insieme, in situazioni diverse. E non distogliere lo sguardo da ciò che succede nelle città iraniane è un modo per ridurre il coefficiente di morte che il regime può esercitare nei suoi confini».

Per quanto riguarda noi, invece, Stefanelli ha in mente un auspicio preciso, che nasce da un’eredità. «Spero che la manifestazione di oggi – chiosa la giornalista – produca un reale spostamento nella consapevolezza collettiva, come successe nel 1965 con Franca Viola. Ci sono delle storie che diventano patrimonio dell’umanità, che rendono evidente l’urgenza di cambiare. Il No di Franca Viola fece esattamente questo, svelando qualcosa che era chiaro a tutti ma che non era ancora stato sistemato: la follia dei matrimoni riparatori».