Distaccato, ironico, con un velo di delusione. Achille Occhetto, ultimo segretario del Partito Comunista Italiano e uomo della svolta della Bolognina, si anima quando racconta la tensione di quel 1989 «drammatico e miracoloso» e liquida con un laconico «l'incultura si è adagiata nella boutade», ricordando il 1994 passato alla storia per la «gioiosa macchina da guerra». Torinese d'accento e nei modi cortesi, ottant'anni, è uno degli ultimi custodi della memoria storica della sinistra italiana, anche se «in questi tempi di crisi della politica preferisco occuparmi di filosofia» (In uscita il 3 novembre, per Sellerio, il saggio Pensieri di un ottuagenario, alla ricerca della libertà dell'uomo).Cominciamo dall'inizio, o meglio dalla fine. Il 1989 della caduta del Muro di Berlino fu anche l'anno di quella che è passata alla storia come la «svolta della Bolognina»: l'annuncio del superamento del Pci.La caduta del Muro è stata un evento centrale nella storia collettiva e della mia storia personale di eretico della sinistra. A partire da quel 1989 si sono dipanati gli eventi che hanno portato a quel processo di elaborazione, che ha avuto come conseguenza la svolta della Bolognina.Quanto le è costata quella decisione?E' stato un momento emotivamente molto drammatico. Molti ancora pensano - sbagliando - che si trattò di un fulmine a ciel sereno, invece già nel 1988 gli eventi mondiali indicavano la necessità di un cambiamento.Lei si è assunto in prima persona il peso della scelta di «superare il Pci», mettendo fine al più grande partito comunista europeo.Ricordo l'effetto che suscitò. Era come se il Papa avesse negato la verginità della Madonna. Furono giornate di grande tensione morale, in cui la mia proposta partì in minoranza. Poi il sì alla svolta venne approvato con il 70% del consenso, con grande sostegno soprattutto nelle fabbriche. E' stata una fase molto concitata e ancora oggi mi chiedo come mi sia riuscito di arrivare con quella velocità al risultato. Fu quasi miracoloso.Sembra il racconto di una fuga, il suo. Ma da che cosa?La nostra era una corsa contro il tempo per non rimanere schiacciati sotto le macerie dell'imminente caduta dell'Unione Sovietica. Con la svolta riuscii ad anticipare, di fatto, il tramonto di un mondo che stava finendo.Una scelta inevitabile, quindi. Eppure molti nostalgici ancora non gliela perdonano. Si sente un poco maltrattato dalla memoria collettiva?Complessivamente non me ne importa granché. Di una cosa, però, soffro: siamo stati l'avanguardia del pensiero politico europeo, ma la nostra elaborazione non venne valorizzata. Ciò che seguì fu una stravagante dissipazione di una eccezionale energia politica. Ricordo ancora che, all'epoca, a Giulio Andreotti piaceva dire: «Amo talmente la Germania che ne preferivo due». Noi invece fummo i primi a riconoscere che presto ci sarebbe stata l'unificazione. Ecco, considero un gran peccato la successiva la lotta per il disconoscimento di quella fase politica.Guardandosi indietro, le manca qualche cosa del partito che consegnò alla storia?Da uomo della svolta, testimonio un grandissimo amore per il Partito comunista, che fu un'esperienza originalissima in cui la politica era legata alle idee e alla cultura. Ora, invece, non si combatte per le idee e il confronto è concentrato tutto sull'oggi, come se esistesse solo il presente senza alcuna visione prospettica.Ma il futuro se lo era immaginato come poi è stato?Onestamente no e a sconvolgere le mie previsioni è stata Mani Pulite. Avevo immaginato un futuro politico all'interno di un mondo come io lo conoscevo ed ero convinto che, anche se Craxi si era messo di traverso, sarebbe stato possibile un rimescolamento del fronte della sinistra. Invece Tangentopoli ha asfaltato il sistema e rivoluzionato il clima politico nel Paese.Tornando alla storia, nella fase che seguì lo scioglimento del Pci, uno dei drammi riguardò l'abbandono della parola «comunista» nel nome.All'epoca dissi che prima era importante la cosa, poi sarebbe venuto il nome. Sui media si ironizzò in modo molto superficiale su "la cosa", come se fosse irrilevante. Nessuno colse il riferimento a un vecchio detto filosofico: nomine sunt consequentia rerum. I nomi devono rispecchiare l'essenza della cosa denominata. Invece il dramma non riguardò la cosa ma il nome, e questa fu la causa delle difficoltà successive.E che nuovo partito aveva in mente?Volevo creare un partito tollerante, che potesse essere approdo di più anime e sensibilità della sinistra. Alla mia visione si contrappose quella settaria di Bettino Craxi, il quale voleva che il Pci sconfitto passasse sotto le forche caudine e confluisse in una unità socialista. E così dentro il Pci si aprì una lotta sorda.Così arriviamo al dopo Tangentopoli e ad una sua frase, che è rimasta emblematica della sconfitta e che dà anche il titolo a uno dei suoi libri: «La gioiosa macchina da guerra». Come le venne in mente?Più che della sconfitta, quella frase è la metafora della crisi del giornalismo. La dissi dopo una lunga e faticosissima riunione per comporre le liste elettorali e i giornalisti ci si avventarono sopra. Mi chiesero come fosse andata e io, ironicamente, stavo per dire che avevamo messo in piedi "un'armata Brancaleone". Mi morsi la lingua e provai a correggere il tiro, definendola «una gioiosa macchina da guerra». Un'ossimoro che voleva essere una boutade.Invece...Invece, poiché quando si perde si ha sempre torto, quella frase è stata rispolverata come se fosse stata una sorta di minaccia da Armata rossa. Quel che trovo spiacevole è che quel tragico 1994 sia rimasto collegato ad una battuta.Ad una battuta e a un vestito marrone, che lei indossò nel famoso duello televisivo con un allora semisconosciuto Silvio Berlusconi, negli studi del Tg5 di Mentana. La dipinsero come il grigio funzionario di partito contro l'imprenditore rampante.Pensi che quel completo lo indossai per caso, perché ho sempre preferito un look informale. In realtà quel confronto non ebbe l'esito negativo che oggi a qualcuno piace raccontare. Anzi, all'epoca alcuni sostennero che fossi io il vincitore, o che al massimo fosse stato un pareggio. E, appunto, l'unica intelligentissima critica mossa dai media riguardò il mio abbigliamento.Lei ha scritto che «nella storia spesso hanno vinto i peggiori». Si riferiva a quel 1994?Guardi, quest'anno ho compiuto anche io ottant'anni come Silvio Berlusconi e non ho suscitato gli stessi grandi eventi commemorativi. Eppure c'è qualcosa di diverso tra me e lui: oggi lui è un perdente. Io nel 1994 persi, ma oggi mi considero un vincente. Con quella frase, però, io riflettevo sulla storia nel suo complesso: per esempio, ho sempre avuto grandissima simpatia per Bruto. Se le Idi di marzo del 44 fossero andate diversamente, forse lo celebreremmo come nume tutelare della democrazia e oggi sarebbe al centro del dibattito sul referendum.Non è stato tenero nell'elencare i vizi della sinistra. Quale sopra tutti?Il male oscuro della sinistra si chiama frazionismo. Non mi riferisco alle correnti in senso alto, ma dopo la svolta hanno iniziato a dilagare le fazioni in lotta per il potere fine a se stesso.A questo proposito, viene spontaneo fare il nome del suo storico avversario interno, Massimo D'Alema.Non ho mai considerato il suo un tradimento personale. Del resto, non è un trattamento che ha riservato solo a me: ha proseguito con Romano Prodi, sconfitto non dalla destra ma da un complotto interno guidato da D'Alema e Cossiga. Poi è stata la volta di Walter Veltroni, e così via.A proposito di leader, proviamo a tornare indietro con la memoria. Lei, giovane dirigente comunista, ha conosciuto "il Migliore", Palmiro Togliatti. Come lo ricorda?Come un politico di grandissimo fascino. Porto con me un aneddoto: era il 1961 e, per il ventiduesimo congresso del Pcus, scrissi un articolo per il settimanale comunista Nuova Generazione, in cui criticavo fortemente l'Unione Sovietica per non aver dato seguito alle aspettative di rinnovamento annunciate nel congresso precedente. Prima di andare in stampa, portai a Togliatti l'articolo. Ricordo di essere entrato tutto tremebondo nel suo ufficio, il sancta sanctorum del partito, per lasciargli quei fogli, terrorizzato dalla sua possibile reazione. Lui lo lesse, mi fece chiamare e mi disse: «Interessante. Diffondilo, ma non solo tra i giovani, ma soprattutto nel partito». Questo era Togliatti: voleva che il senso critico filtrasse nel partito, anche se la linea ufficiale non lo permetteva ancora.Negli ultimi tempi è rifiorito il mito di Enrico Berlinguer. Lei ha vissuto con lui gli anni della sua segreteria, lo riconosce in come lo si descrive oggi?Berlinguer è stato un politico innovatore e il suo pensiero - dalla cosiddetta questione morale alle riflessioni sull'esaurimento della spinta propulsiva dell'Urss - è stato fondamentale per farmi maturare l'idea della svolta. Lui ha però dovuto muoversi lentamente, per non rompere il guscio in un involucro vecchio. Di ciò che si dice oggi non condivido la retorica del partito unito intorno ad un segretario amato: gli ultimi due anni del suo mandato sono stati drammatici e Berlinguer è stato criticato e messo in minoranza soprattutto sulla questione morale.Lei parla con grande distacco, ma c'è stato qualcosa che l'ha fatta arrabbiare della sua ultima fase politica?Sì, non ho digerito un episodio. Durante il mio ultimo mandato da parlamentare, spesso i giornalisti facevano capannello intorno a me. Un giorno un gruppaccio organizzato dal partito si avvicinò e gli chiese perché ancora mi dessero retta. Mi definirono «pieno di rancore e anche un po' fuori di testa». La presi sul personale.C'è qualcuno invece, tra i non comunisti, che ricorda con affetto?Beniamino Andreatta. Veniva dalla Democrazia Cristiana ed è stato ministro degli Esteri nel governo Ciampi del 1993. Con lui fondai l'associazione «Carta 14 giugno, per la costituente dell'Ulivo» e ci occupammo insieme anche di questioni costituzionali.A proposito di Costituzione, voterà al referendum di dicembre?Voterò, ma non le dico che cosa, perché non voglio prender parte a questa campagna di fazioni.Mi dice almeno che cosa determinerà la sua scelta?Voterò sul merito e non sul metodo con cui è stata condotta la campagna referendaria, se è questo che mi chiede. Penso però che il primo responsabile di questo scontro politico sia stato Matteo Renzi, che ha colpevolmente chiamato a un voto sul suo governo. A questo si è accodata anche una parte rilevante del fronte del No, falsificando così una campagna che, fatta in questo modo, non fa onore a nessuno. Durante la Costituente del 1946 nessuno si sarebbe sognato di determinare le scelte attaccando personalmente Togliatti o De Gasperi.Concludiamo guardando al presente. Con che occhi osserva la sinistra di oggi?Con distacco e anche un poco di delusione. Il Partito Democratico è immensamente diverso dal Pci - che però è esperienza di un mondo che non esiste più - ma quel che trovo più impressionante è quanto sia distante anche dal PdS. Del resto, si è trattato di una fusione a freddo di apparati, con l'obiettivo dell'occupazione degli spazi di potere. Quel che vediamo oggi, però, è il portato di questi tempi di crisi della politica. Sarebbe necessaria una rifondazione delle grandi idee del Novecento, dal socialismo alla democrazia.