Nell’esuberanza esternatoria di queste inutili settimane di non governo, in cui come in preda ad uno shock da acne adolescenziale, i protagonisti hanno vomitato, su cronachisti sempre mansueti, il tutto e il suo contrario, si è consumato il rito dell’invocazione delle urne. Chiuse solo due mesi fa. Se si andasse a votare ad ottobre, come si racconta, o anche nella prossima primavera, la XVIII sarebbe la legislatura più breve della Repubblica, con sei mesi o un anno di vita, superando in questa non commendevole classifica, quelle di due anni o giù di lì che sinora hanno saldamente detenuto il primato ( l’XI, quella che chiuse la Prima Repubblica, 722 giorni, la XII, quella del primo Berlusconi e poi Dini, 755 giorni e la XV, quella del governo Prodi II, 732 giorni).

Anche in questa specie di polluzione giovanilistica, però, fa capolino la volontà di fare una legge elettorale che metta al riparo dall’inconveniente, altamente probabile con il Rosatellum, che anche nel nuovo giro elettorale nessun contendente raggiunga la maggioranza in Parlamento e che, quindi, ci si trovi di nuovo in un mare aperto e malmostoso come oggi. Si affaccia, non senza una qualche ragionevolezza, allora, l’idea di una legge elettorale a doppio turno. Qui da noi piace dire alla francese perché fa molto chic. Basterebbe, però guardare ai Comuni, unico sistema elettorale italiano che ha dimostrato di funzionare dal 1990 ( nel frattempo al Parlamento se ne sono fatti quattro!!!). Questa legge, come dovrebbe essere noto, prevede un turno di ballottaggio se nel primo voto nessuno raggiunge la maggioranza assoluta e assegna il premio per il governo nel secondo turno dopo aver distribuito con calcolo proporzionale la spettanza al primo. Poi c’è pure il voto di preferenza, ormai un lusso democratico che il Parlamento non si consente più dal lontano 1994. Insomma una cosa che può funzionare, mettendo insieme governabilità e rappresentanza. C’è però un problema: la Costituzione dice che sono le due Camere e non una sola a dover dare la fiducia ai governi. Il che significa che, se il ballottaggio dà vincitori diversi nelle due Camere cosa non improbabilissima, tenendo conto che, tra l’altro, hanno due corpi elettorali diversi per fasce generazionali di partenza - ci troveremmo ancora in mezzo a quel mare, stavolta oltre che malmostoso anche battuto da tempeste. Una soluzione potrebbe intanto essere quella di ridurre di molto il danno del possibile voto divaricato, facendo una riforma costituzionale- che però ha i suoi tempi dettati dall’art. 138 - mirata a correggere l’illogico anacronismo dell’elettorato attivo al Senato di ultraventicinquenni, mentre alla Camera votano dai diciott’anni in su. Sarebbe, tra l’altro, la restituzione del pieno diritto di voto a quattro milioni e mezzo cittadini che ne sono ingiustificatamente estromessi. Le forze politiche dicono da sempre che sono d’accordo su questo punto. Dunque non ci sarebbero problemi politici: basterebbe il tempo che il Parlamento impiegò per approvare la riforma costituzionale dell’art. 81, quella che introduceva l’obbligo del pareggio di bilancio, targata Monti. Ci mise poco più di cinque mesi, dal primo sì della Camera il 30 novembre 2011, all’ultima lettura del Senato il 17 aprile del 2012. Certo, avendone la forza, visto che saremmo in tema di riforme costituzionali, si potrebbe fare anche qualcosa di più sulle regole del gioco. Approvare, per esempio, una legge istitutiva di una commissione di riforma della seconda parte della Costituzione, con elezione popolare e tempo limitato ad un anno. Perché, è vero che gli italiani hanno bocciato la riforma di Renzi, ma è vero pure che questo bicameralismo così com’è è forse un anacronismo che non possiamo più permetterci e abbiamo ancora sul groppone le Province e il Cnel, tanto per citare cose su cui il consenso è sempre unanime. Ma qui apriamo un capitolo più impegnativo e chissà se c’è in giro voglia di parlarne.