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Purtroppo, non c’è un giudice a Berlino; e, forse, neppure a Francoforte sul Meno. Come è ormai noto, in Germania qualcuno aveva pensato che fosse opportuno, giusto e comunque possibile, chiamare una pizzeria ( sì, proprio così, una pizzeria) “Falcone& Borsellino”. Sui muri del locale il proprietario aveva appeso la celebre foto di Tony Gentile che ritrae insieme i due magistrati e accanto aveva messo l’immagine di don Vito Corleone, interpretato da Marlon Brando ne “Il Padrino”. Non solo, ma il proprietario di siffatta attività commerciale gestiva anche il sito www. falcone- borsellino. de e le pagine collegate di Facebook e Instagram. Questo lo sottolineo, perché la pizzeria estendeva i suoi rapporti, almeno “pubblicitari”, anche oltre la mera dimensione locale e territoriale.
Ora, quanto accaduto denotava, a mio avviso, non solo cattivo gusto ma anche una condotta che poteva urtare la sensibilità di chi pensa a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino come due martiri della lotta a Cosa Nostra, diventati – loro malgrado – oggetto di richiamo per affamati commensali. Penso che quanto accaduto potesse essere sgradito non solo a me, ma anche a moltissimi palermitani, siciliani, italiani ed europei. Per non parlare degli statunitensi, che, tra l’altro, hanno dedicato a Falcone un busto che lo ricorda all’ingresso dell’Academy Fbi a Quantico.
Quindi, si comprende come la sorella di Giovanni Falcone, che ha dato vita ad una Fondazione a lui intitolata e le cui iniziative sono note a tantissimi di noi, avesse potuto ritenere l’accaduto offensivo per il nome e la memoria di Giovanni Falcone. Di qui il ricorso alla magistratura tedesca, da parte di Maria Falcone, per violazione del diritto al nome del fratello e della stessa Signora, nonché della Fondazione Giovanni e Francesca Falcone per il diritto di marchio della Fondazione. Lo scopo, ovviamente, era quello di far cessare l’uso del nome di Giovanni Falcone ( e, per riflesso, quello di Paolo Borsellino) nel quadro sopra richiamato. Peraltro, il convenuto, forse a disagio, non si era neppure costituito in giudizio.
Fin qui, la vicenda aveva i contorni di una iniziativa commerciale, a mio giudizio di cattivo gusto, ma – tutto sommato – circoscritta e non meritevole di particolare attenzione. È invece la sentenza del giudice tedesco, depositata il 25 novembre, a stupire ed addolorare. Scriveva, tra l’altro, detto magistrato: «a causa del passare del tempo e dello sbiadimento della memoria del defunto, la protezione non può più essere garantita». E, a spiegazione dell’assunto, rincarava la dose: «Giovanni Falcone è morto nel 1992, quindi sono passati circa 28 anni dalla sua morte. Quasi 30 anni fa, il tema “Lotta alla mafia” era sotto gli occhi di tutti. Oggi non è più così per il pubblico di riferimento». Falcone sarebbe, a dire di tale magistrato, noto solo agli “addetti ai lavori”, e non «a tutte le persone che frequentano i ristoranti». Infine, concludeva il giudice tedesco, «nella valutazione si deve anche tener conto del fatto che l’opera di Giovanni Falcone si svolse principalmente in Italia». Ora, non sono – né voglio fare – l’avvocato in causa, ma la contraddizione in termini era palese: da un lato si giustificava il richiamo al nome, dall’altro lo si reputava sostanzialmente inutile; per un verso si affermava che l’opera di Falcone sarebbe stata principalmente italiana, dall’altro non si valutava la presenza del locale in Germania e, di contro, di un sito web, di facebook e di instagram, capaci di attraversare i confini.
Ma non è questo il punto centrale, almeno per me. Il punto è che ci sono fatti, e forse proprio un giudice tedesco dovrebbe saperlo, che non si possono e non si devono dimenticare, mai. Inoltre, mi sembra di avvertire, nella sentenza, una certa sfiducia nelle conoscenze del tedesco “medio”, ignaro avventore dei locali in Germania e, al contempo, una tendenza a confinare, sminuendola, la memoria di Giovanni Falcone, magistrato “italiano” ( e, magari, “siciliano”, “palermitano”; e via restringendo).
Ora, da cittadini prima, e da giuristi poi, non possiamo che inchinarci al giudicato e alle sentenze definitive, ovviamente nella misura nella quale stabilirono la fondatezza delle indagini di Falcone e Borsellino. La storia giuridica è in quelle carte, da conoscere e rispettare, condividendole o meno. E la storia degli uomini e delle donne che hanno perso la vita per fare il loro dovere – dal magistrato più noto all’ultimo dei servitori dello Stato e dei privati cittadini – appartiene a tutti noi ed all’umanità intera. Per sempre. Non è un caso, del resto, che pochi mesi fa la Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu contro la criminalità transnazionale, riunita a Vienna, abbia approvato, con l’unanimità di 190 Paesi, una risoluzione che riconosce il contributo dato da Falcone alla lotta al crimine organizzato internazionale. Una cosa ovvia, direi. Ma non un riconoscimento banale.
Ebbene, anche l’ambasciata italiana in Germania, lo scorso 4 dicembre, e dunque dopo la pubblicazione della sentenza di Francoforte, ma senza alcun riferimento alla stessa, probabilmente per comprensibili “ragioni diplomatiche”, aveva espresso “profondo rammarico” nel vedere il nome di Falcone e Borsellino “utilizzato per un’attività commerciale in cui viene banalizzata la criminalità organizzata”. Ora, è notizia dell’altro ieri che, dopo lo sconcerto provocato dalla vicenda, ma ancor di più ( a mio parere) dalla sentenza, i proprietari della pizzeria Falcone& Borsellino di Francoforte hanno deciso di rinunciare al nome sino a quel momento utilizzato. Pare che, in una lettera inviata dalla proprietà del ristorante all’ambasciata italiana a Berlino, abbiano scritto che «in nessun momento è stata nostra intenzione banalizzare la mafia, offendere i due magistrati anti mafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e le vittime innocenti della mafia» ; e, pertanto, che abbiano affermato di voler rinunciare al nome originario della pizzeria, come segno «di rispetto per i sentimenti dei familiari e per il riconoscimento della memoria dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino». Meglio tardi che mai, si direbbe, anche se l’offesa è più ampia di quella rivolta alla memoria dei magistrati e ai loro familiari: tutti noi siamo stati toccati dalla loro condotta. Tuttavia, la lettera afferma anche che «nel merito non c’è da biasimare il respingimento della denuncia da un punto di vista legale». E prosegue lamentando di non essere stati contattati direttamente dalla professoressa Maria Falcone prima di essere convenuti in giudizio, salvo poi non costituirsi ed “incassare” la vittoria davanti al tribunale di Francoforte sul Meno. La richiamata lettera, pertanto, rafforza la mia convinzione che, se l’ultima condotta dei privati elimina, per il futuro, l’offesa alla memoria, lascia tuttavia l’amaro in bocca di una sentenza dura da leggere e da comprendere, preceduta da un fatto ( l’uso del nome dei due magistrati) e seguita da un altro fatto ( il “ravvedimento” del proprietario), che però mantiene immutata la ( fosca e deprimente) vicenda giuridica, ritenuta corretta persino da chi avrebbe “vinto”. E a me rimane il dubbio, in mancanza di una impugnazione, che ci sia un ( altro) giudice, a Francoforte.