Il primo giro di consultazioni al Quirinale si è chiuso e la principale stranezza che emerge non sta nel fatto che Sergio Mattarella non abbia affidato a nessuno l’incarico di formare il governo; quanto nel fatto che nessuno, quell’incarico, glielo abbia chiesto.

È come se si fosse svolta una gara all’ultimo sangue per arrivare primi al traguardo e poi, una volta ottenuta la vittoria - poco importa se in solitaria o ex aequo - nessuno si presentasse a reclamare il trofeo. Come è possibile? In passato per un capo politico ricevere dal presidente della Repubblica il mandato per provare a formare il governo era considerato un onore: il riconoscimento - anche sotto il profilo istituzionale - dell’importanza acquisita dalla propria figura. Un attestato di autorevolezza e capacità, un viatico per ottenere il potere: quello vero, indiscusso, visibile.

Fu così per Ugo La Malfa, plurimistro e segretario del Pri, quando Sandro Pertini nel 1979 lo convocó al Quirinale: era la prima volta che toccava ad un non Dc, ad un laico. La stessa cosa capitó otto anni dopo, nel 1987, a Nilde Iotti, presidente della Camera. France- sco Cossiga le chiese di verificare la possibilità di allestire un governo che superasse il recinto del pentapartito. Si trattava di un’altra “prima volta”: in questo caso affidata nelle mani di un’esponente storica del Pci.

Stavolta invece, assistiamo all’opposto. Sfilano davanti ai microfoni fuori dello studio alla Vetrata del Quirinale facce smunte, ingrugnate o sorridenti a seconda dei casi: ma nessuna così volitiva e pronta ad assumersi la responsabilità di un tentativo. Né pieno, né esplorativo, né sotto forma di pre- incarico: niente, zero assoluto. Tanti concorrenti premier - sicuri di sé e pronti ad annunciare mirabilie agli elettori in caso di successo - ai nastri di partenza. E un nugolo di riluttanti al momento delle scelte. Perché? Come è possibile che l’obiettivo più ambito venga così platealmente derubricato?

La spiegazione che viene ufficialmente fornita è che nessuno chiede il mandato per paura di bruciarsi, viste le difficoltà di intessere accordi di maggioranza almeno un minimo solidi. Non ci sono i numeri è il ragionamento, dunque meglio aspettare.

Ma allora, per fare un esempio tra i tanti possibili, com’è che cinque anni fa Pier Luigi Bersani, che pure non aveva la maggioranza, scalpitò ( inutilmente) per convincere Giorgio Napolitano a incaricarlo? L’impeto masochistico di volersi schiantare di fronte ai no dei possibili partner? Non può essere. Del resto l’incarico di norma viene assegnato alla personalità che più di tutte ha i requisiti per allestire una coalizione: la mossa del Presidente si fonda su una constatazione che tuttavia non è ancora una certezza.

E perciò si ritorna al punto di partenza: come mai tanta ritrosia di fronte al frutto politicamente più prelibato per un capo partito?

Forse la risposta va cercata valutando la scena da un altro, opposto, punto di vista. Che peraltro può aiutare a capire di più e meglio tanto spargimento di titubanze. Il punto è che governare non premia: al contrario logora e, sotto il profilo dei consensi, in fin dei conti danneggia. È questa, infatti, la lezione che arriva dagli ultimi 15- 20 anni di esperienza politica nei regimi democratici di tutto il mondo. Per cui chi vuole il potere, chi intende mettersi seduto sulla poltrona di premier, deve garantirsi quanto più può le condizioni indispensabili per non essere travolto non solo al termine del mandato ma anche ( e soprattutto) in corso d’opera.

Perciò, certo che palazzo Chigi fa gola a Di Maio o a Salvini, per citare solo i leader che hanno riscosso più successo nelle elezioni del 4 marzo. Ma nessuno dei due può permettersi il lusso di imbarcarsi in una avventura che minaccia sangue, sudore lacrime oltre che gratificazione e riconoscimenti, se non poggia su solidissime basi di accordo e su numeri parlamentari ampi e definiti. Niente di tutto questo, al momento, è all’orizzonte: al contrario prevalgono veti, impuntature, stroncature. Cambierà qualcosa al prossimo giro? Difficile dirlo. In ogni caso Mattarella non si sottrarrà ai suoi doveri e all’esercizio delle sue prerogative. E nel frattempo salvini ha rigettato il perimetro dei partiti disegnato da Di Maio a favore di quello coalizionale: il centrodestra andrà unito al Colle nel secondo giro, ed è la condizione obbligata per l’incarico al numero uno leghista.

Però ancora una volta diventa obbligatorio sottolineare che fare politica è principalmente assumersi oneri e responsabilità. Addirittura, se necessario, sfidare il mostro più mostro di tutti: l’impopolaritá. Chissà se i nostri leader se la sentono. Se così non fosse, forse allora sarebbe meglio lasciar perdere.