Il corpo di Beniamino Zuncheddu è stato piegato più dalla speranza che dal torto subito. Una speranza che ha risvegliato in lui il pensiero, tenuto a bada per 33 anni, di poter vedere riconosciuta quell’innocenza che ha sempre urlato, ma che nessuno ha mai voluto ascoltare. Perché la sua non è una semplice storia di errore giudiziario: quello a suo danno assomiglia più a un complotto, una macchinazione che ha stritolato la vita di un uomo privandolo di tutto.

Zuncheddu è entrato in carcere da giovane, a 27 anni, accusato per una strage, quella del Sinnai, che non ha mai compiuto. E ne è uscito da vecchio, come ha riassunto lui stesso al termine della conferenza stampa convocata nella sede del Partito Radicale dopo la sua assoluzione. Una frase semplicissima e insieme devastante per chi crede nella giustizia. Come Mauro Trogu, l’avvocato che lo ha salvato da quel dramma. Che con l’ingiustizia subita da Zuncheddu aveva perso la fiducia in quel sistema che oggi, anche grazie a lui, può dirsi - in parte - riabilitato.

Avvocato, come si è avvicinato al caso Zuncheddu?

Sono stato incaricato dalla sorella di Beniamino, a fine 2016, per prendere in mano la sua situazione. Lo scopo era ottenere una misura alternativa alla detenzione, dopo l’ennesimo rifiuto. E in carcere gli era stato detto che per uscire l’unica cosa da fare era confessare. Lui a questa cosa qua proprio non ci ha mai pensato, neanche lontanamente. Provava sconforto. Quando la sorella mi ha raccontato dell’andamento del processo di merito io non le ho creduto: ho pensato che mi stesse raccontando solo ciò che le faceva comodo. Ma quando ho letto le sentenze ho cambiato idea.

Cos’è cambiato dopo aver letto le sentenze?

Mi sono sentito veramente turbato. Era chiaro che fossero ingiuste, a prescindere dalla sua innocenza. Sulla base di quei ragionamenti chiunque avrebbe potuto essere condannato per qualcosa che non ha commesso. Lui è stato condannato sulla base di una testimonianza oculare: in questo ovile vennero uccise tre persone e una si salvò. Quest’uomo divenne il testimone a carico di Beniamino, ma solo 45 giorni dopo i fatti. Inizialmente disse che non era nelle condizioni di riconoscere chi aveva sparato, perché l’aggressore - corpulento e agile - aveva un collant da donna sul volto. Poi, improvvisamente, cambiò versione: disse di aver mentito per paura.

Lei come ha capito che si trattava di una bugia?

Al pm descrisse un volto. Ma non era tanto la descrizione di un volto, quanto la discrezione di una fotografia, quella di Zuncheddu che gli era stata mostrata. Descriveva l’ombra sotto il mento, che era l’ombra del flash. Così ho capito che questo cambio di versione era stato determinato dal lavorio di un poliziotto che, tra l’altro, al dibattimento, ammise candidamente di aver ritenuto menzognera la prima dichiarazione del testimone e di averlo spinto con un’opera di persuasione a dire la verità, in tanti colloqui mai verbalizzati - altra grande anomalia -. Così contattai un criminologo esperto di psicologia della testimonianza, Simone Montaldo, il quale mi spiegò i gravissimi danni che può fare sulla memoria questo modo di condurre le indagini.

Questo bastava a riaprire le indagini?

Servivano dati oggettivi più solidi. Così abbiamo scoperto che l’ovile in cui accaddero gli omicidi era ancora tale e quale a trent’anni fa e quindi abbiamo deciso di fare un sopralluogo, durante il quale ci siamo resi conto che il testimone aveva mentito: abbiamo ricostruito le condizioni di buio che erano presenti all’epoca, ci siamo messi nelle reciproche posizioni dello sparatore e del testimone e ci siamo resi conto che il testimone non poteva assolutamente aver visto ciò che raccontava di aver visto. Ci siamo avvalsi, a quel punto, di un ulteriore consulente, Mario Matteucci, colonnello dei carabinieri esperto di ricostruzione di scena del crimine, che in quel periodo aveva acquisito uno scanner 3D, col quale ha ricostruito dal punto di vista dinamico e balistico gli omicidi. E ha confermato in maniera oggettiva che il testimone non aveva potuto vedere nulla. Con questo materiale sono andato a bussare alla porta dell’allora procuratore generale di Cagliari, Francesca Nanni, che si era appena insediata. Mi chiese del tempo, ma poco dopo arrivò a capire che quegli omicidi erano collegati ad un sequestro di persona a scopo di estorsione che si era consumato in quegli stessi luoghi, in quegli stessi mesi. Acquisendo l’incartamento di quel caso, vennero fuori tantissimi punti di contatto, addirittura in alcune relazioni dei carabinieri sul punto. Ma quei verbali non erano mai stati fatti confluire nel processo di Beniamino.

Ma quale sarebbe stato il movente di Zuncheddu?

Di natura agropastorale. I difensori dell’epoca sostennero la tesi del collegamento col sequestro Murgia, ma vennero quasi derisi dalla dalla Corte d’appello che li definì fantasiosi, con un linguaggio davvero poco consono a una sentenza. Nanni avviò dunque una nuova indagine, disponendo delle intercettazioni a carico del testimone oculare, che fu convocato in procura per dei chiarimenti su questa vicenda. Davanti agli inquirenti mantenne la sua versione, ma una volta uscito, salito in macchina, disse alla moglie: “Hanno capito tutto, hanno capito la verità, hanno capito che Mario mi ha fatto vedere la foto di Beniamino prima”. Si trattava di Mario Uda, il poliziotto che condusse le indagini, e questo concetto lo ribadì tre volte, due in macchina e un’ora dopo al telefono. Con queste intercettazioni avevamo la prova regina per far riaprire il caso.

Così si arriva al momento della verità: Luigi Pinna, il testimone oculare, in aula.

Quando gli è stato chiesto conto di quelle intercettazione, prima ha tentennato, poi, dopo un’ora e mezza di esame, ha ammesso tutto: Mario, ha detto, mi ha fatto vedere le foto prima, io non riconoscevo nessuno per via del collant, però il poliziotto, mi aveva convinto che quello fosse il responsabile, era sicuro. E il processo di revisione fondamentalmente si è concluso in quel momento.

Ma com’è possibile che i giudici non abbiano avuto dubbi?

Lo dovrebbe chiedere a loro, io non ho una spiegazione.

Ma la sola testimonianza, di un sopravvissuto, dunque di una persona che ha subito un trauma, basta?

No. Ma la cosa paradossale è invece che nelle sentenze è stato scritto esattamente il contrario: secondo i giudici, in quel momento così drammatico la memoria dell’uomo sarebbe stata in grado di fissare dentro di sé ricordi fuori dal comune. Il dottor Montaldo, in una relazione di 120 pagine, ha spiegato sotto quanti punti di vista, e sono decine, quella testimonianza non potesse essere considerata attendibile. Dopo la ritrattazione servivano quanto meno riscontri oggettivi. Ma il discorso è che nessuno, nel 1991, è andato a fare perizie sull’ovile, se non per calcolare il tempo di percorrenza da lì al paese di residenza di Beniamino, per verificare se l’alibi reggesse.

Quindi non sono andati alla ricerca di prove, ma alla ricerca di una conferma della loro tesi.

Esattamente.

Ma come si era arrivati a Zuncheddu?

Si tenga forte: il nome di Beniamino sarebbe stato fatto, secondo il poliziotto, da una fonte fiduciaria. Cioè anonima e di cui il poliziotto si è rifiutato di indicare il nome, anche adesso, nel giudizio di revisione.

Per lui c’è stata la trasmissione degli atti in procura. Ma quei fatti sono prescritti.

Sì, ma si procede perché il procuratore ha ritenuto che che abbia commesso falsa testimonianza anche in questa sede, così come la moglie di Pinna, che ha negato le frasi intercettate, e per un altro testimone che all’epoca servì per giustificare il movente, Paolo Melis, che avrebbe assistito ad una ad un diverbio tra Beniamino e Giuseppe Fadda, una delle tre vittime.

Che diverbio?

Le tre vittime erano solite respingere le vacche dei vicini che sconfinavano nei loro pascoli a colpi di fucile. E mentre Giuseppe Fadda sparava a queste vacche, un giorno Beniamino gli avrebbe detto: “Quello che stai facendo alle mie vacche un giorno sarà fatto a te”. Ma Beniamino non aveva vacche. Così Melis disse che Beniamino era nipote di un altro soggetto rimasto estraneo al processo. Ma poi cambiò ancora versione, dicendo che era un servo pastore di quest’uomo, ma che non lo aveva mai visto prima. Poi ha detto di aver mentito per paura. Sa quando? Due giorni che anche Pinna cambiasse versione. Melis, nel processo di revisione, ha cambiato ancora versione, dicendo di non averlo riconosciuto perché era troppo lontano. Ed è vero, ha sempre detto, anche all’epoca, che era a 100 metri di distanza. Solo che avevano creduto al riconoscimento.

Lei ha creduto subito a Zuncheddu?

Quando sua sorella mi ha raccontato questa storia, dentro di me ho detto: è la storia che raccontano tutti. Mio fratello è innocente, sta pagando una pena sbagliata. Quando sono andato a trovarlo ero convinto di andare a trovare un triplice omicida. Ma poi ho capito che avevano detto la verità. E conoscendo Beniamino mi sono reso conto che era così. Non ci sono aggettivi per lui. Mite, tranquillo, pacifico. Senza rancore. Ma preferiva morire in galera piuttosto che dire una bugia. Io non sono cattolico, ma se c’è una persona che incarna lo spirito del Vangelo e il messaggio di Gesù Cristo, quello è Beniamino. E poi viveva nella speranza che prima o poi la verità venisse fuori.

Ma la speranza è anche una cosa che può uccidere. E 30 anni di speranza sono tanti.

Io l’ho conosciuto dopo 26 anni di carcere. E lì per lì lui puntava alla liberazione condizionale e gli dicevo: lo sai che è difficile senza confessione? Lui mi ha risposto: lo so benissimo, prima o poi me la daranno. La danno a tutti, anche ai mafiosi, prima o poi la daranno pure a me. Io aspetto, ho pazienza. Ma quando ha cominciato a capire che c’era la seria possibilità di avere la revisione ha iniziato ad avere un’ansia che purtroppo lo ha logorato. Lui si sentiva preso in giro dai precedenti magistrati, quindi non aveva fiducia e temeva l’attendismo di Nanni. Ma gli ho spiegato che avevo molta fiducia in lei ed è stata abbondantemente ripagata. In tutto ciò c’è stato un procedimento di sorveglianza durato quattro anni.

Più del processo di revisione.

Esatto. E ogni diniego era una mazzata incredibile, perché lui diceva: c’è la prova dell’innocenza, c’è tutto, perché non mi fanno uscire? Sono stati degli anni devastanti. Io mi chiedevo: ma cosa c’è sotto? A un certo punto diventi complottista. Ed in parte è saltato fuori.

Cioè?

Nel confronto tra Uda e Pinna, il poliziotto ha tirato fuori da una valigetta un atto che aveva conservato a casa e che non era mai confluito nel fascicolo del pm: un identikit dell’aggressore, che era stato fatto in ospedale quando Pinna era ricoverato. Identikit che non corrispondeva per niente a Beniamino. Fermo restando che Pinna non avrebbe potuto vedere l’assassino, mi sono chiesto se in Questura non ci fosse altro. E il procuratore, un magistrato con la M maiuscola, che non si fidava di come avrebbero potuto gestire quegli atti, ne ha disposto il sequestro. In Questura, capisce? Una cosa mai vista.

E cosa ha scoperto?

Nel fascicolo mancavano 10 giorni di indagini, i primi 10 giorni di indagine. C’era un verbale che confermava che l’aggressore non era riconoscibile perché travisato. E poi un’annotazione di Uda che, dopo aver sentito i familiari delle vittime e aver fatto un po’ di indagini sul territorio, indicava come pista più accreditata il collegamento con il sequestro Murgia. Insomma, le tre vittime sarebbero state testimoni involontari del sequestro. Ma anziché stare zitti erano andati a raccontarlo in giro, lamentandosi del comportamento tenuto da uno di questi sequestratori, vecchio amico del capofamiglia ucciso. Tanto è vero che questo vecchio amico è colui che verrà chiamato dalle donne, rimaste vedove e orfane, per affidargli l’ovile. Quest’uomo, otto anni dopo, sarà condannato come uno degli organizzatori di questo sequestro di persona. Quindi torna tutto. Solo che quel documento non venne mai depositato nel fascicolo del pm. E guarda caso, era la pista indicata dalla difesa.

Ma perché farlo?

Su questo meglio tacere.

Lei ha iniziato a seguire questo caso molto giovane. Che idea si è fatto della giustizia in questi anni?

Mi ha deluso. C’è una frase che ho detto alla dottoressa Nanni: quando mi sono imbattuto in questo caso ho praticamente perso ogni fiducia nella giustizia, ora che ho incontrato lei me ne ha restituito una buona parte. E quindi la mia convinzione è questa, che la buona giustizia non dipende tanto dalle leggi, dipende dalle persone. Il bilancio è che ci sono magistrati in cui si può avere fiducia e magistrati in cui non puoi avere fiducia.

E invece Beniamino, oggi che uomo è?

Nelle relazioni del carcere, lui viene descritto come un detenuto modello. In 32 anni non ha mai avuto una segnalazione disciplinare, mai un richiamo. Quando è stato trasferito dal carcere di Nuoro, dove è rimasto 10 anni, al carcere di Cagliari, il direttore disse: non ci hanno mandato il tuo fascicolo. In realtà era tutto in pochi fogli. Perché uno si aspetta che un triplice omicida sia un bandito. Le relazioni su di lui sono sempre state ultra positive, ma c’era totale assenza di progettazione per il futuro. Gli chiedevano: perché non immagini qualche progetto? Lui diceva: che cosa devo progettare, se poi rischio di rimanere deluso? Se mai riotterrò la libertà farò dei progetti. Ora hanno restituito al mondo un catorcio di uomo. Nell’ultimo anno l’ho visto deperire giorno dopo giorno, è difficile da spiegare: temevo non arrivasse alla prossima udienza. E devo ringraziare la garante Irene Testa, che poi ha dato il via alla campagna del Partito Radicale: il suo intervento è stato molto importante perché è riuscita ad attivare la struttura sanitaria del carcere e lo ha salvato. Ora pensa a curarsi. Poi si vedrà.