Domani è il quarantesimo anniversario dell’uccisione di Aldo Moro. Fu abbattuto a colpi di mitraglietta la mattina del 9 maggio del 1978 da Mario Moretti e forse da un altro esponente delle Br. Aveva 61 anni. Il patibolo fu il portabagagli di una Renault 4 di colore rosso.

La R4 è un’utilitaria francese, piccola ma con una struttura da station wagon, che in quegli anni era molto diffusa. L’esecuzione avvenne la mattina presto nel garage della palazzina di via Montalcini, a Monteverde, dove Moro era stato tenuto prigioniero per 55 giorni. Spararono con il silenziatore. Poi Moretti chiuse il portellone posteriore e si mise alla guida della Renault; al suo fianco era seduto Germano Maccari, un altro dei carcerieri di Moro ( morto d’infarto una decina di anni fa). Guidò fino a piazza Venezia, dove incrociò un’altra auto, una Simca 1000 guidata da un terzo brigatista, probabilmente Bruno Seghetti.

Sul sedile a fianco al guidatore c’era Valerio Morucci. La Simca fece da staffetta fino a via Caetani dove lo stesso Seghetti aveva parcheggiato, le sera prima, un’altra automobile. Seghetti scese dalla Simca, salì a bordo dell’auto parcheggiata e se ne andò. Moretti parcheggiò la Renault 4 al posto rimasto vuoto, poi salì sulla Simca, ancora in moto, e sparì anche lui. Alle 12 e 30, Valerio Morucci, da un telefono pubblico vicino alla stazione Termini, chiamò il professor Francesco Tritto e lo avvertì che il cadavere di Moro stava in via Caetani. Gli disse che doveva informare la famiglia, la signora Eleonora, doveva

dirle che Moro era morto e il cadavere era in via Caetani. Tritto era spaventatissimo, cercò di sottrarsi. Ma non c’era niente da fare. Allora chiamò la polizia Dopo dieci minuti la polizia circondò la Renault 4. Arrivò il ministro dell’Interno, Cossiga, arrivò Ugo Pecchioli ( una specie di ministro ombra del Pci) arrivarono i vertici dei servizi segreti ( tra i quali il generale Mori). Si aprì il portellone del portabagagli e Moro stava lì, rannicchiato, senza vita da qualche ora. Non era morto sul colpo, perché nessuno proiettili aveva colpito il cuore. Perse conoscenza, dopo la prima raffica, e morì per le emorragie, dopo più o meno un quarto d’ora.

Via Caetani è un luogo simbolico. Perché è esattamente equidistante da Botteghe Oscure e da piazza del Gesù. Botteghe Oscure era la sede del Pci, Piazza del Gesù la sede della Dc. Le Brigate Rosse volevano dire quello: abbiamo ucciso il capo del compromesso storico, dell’operazione- regime, dell’alleanza tra Dc e Pci.

Moro era stato un uomo politico grandioso. In tutte le fasi della sua carriera. Era stato un moderato, un progressista, un doroteo, uno degli artefici del centrosinistra, l’uomo dell’apertura ai giovani nel ‘ 68, e infine, insieme a Berlinguer, aveva guidato l’operazione politica più difficile: l’ingresso dei comunisti in maggioranza in un grande paese europeo. Quest’ultima operazione gli costò la vita.

Mario Moretti fu catturato nel 1981, Da allora è detenuto. Ha scontato, sin qui, 37 anni di prigione. Ora è in regime di semilibertà, ma è sempre detenuto. Qualche anno fa tenne un incontro con gli studenti milanesi, in un corso organizzato dalla Provincia e condotto dal giornalista Enrico Fedocci. E poi scrisse a Fedocci la lettera che pubblichiamo qui a fianco e che fino ad oggi non era stata resa pubblica..

Ognuno può leggere la lettera e commentare come vuole. A me ha colpito - in positivo e in negativo - la serenità del giudizio di Moretti. Lui dice: Le Brigate Rosse sono un pezzo molto complesso della storia italiana, e sono una specie di specchio, per tutti. Soprattutto per chi ha vissuto que- gli anni.

Io capisco perfettamente la posizione di un protagonista - anzi del leader - di una formazione che ha praticato la lotta armata, o se preferite il terrorismo, e che oggi vuole collocare nella Storia e non solo nella storia giudiziaria, quella esperienza che è stata tragica per tutti. Non solo, ma io credo che noi dovremmo, quarant’anni dopo, trovare la forza e la lucidità per esaminare effettivamente in modo freddo quelle vicende, cercando di capirne il senso, le motivazioni, gli effetti, le conseguenze, senza spirito di rivalsa, senza ossessioni complottiste. Non ci fu nessun complotto, fu un fenomeno molto più complesso. La generazione del baby boom ( cioè quella nata tra il 1945 e il 1955) in quasi tutto l’occidente è stata protagonista di fenomeni, più o meno marginali, di lotta armata. Non solo nei paesi dove regnavano regimi autoritari di destra, come la Spagna, o dove esplodevano questioni nazionali antiche ( Irlanda) ma anche nei grandi paesi della democrazia, come gli Stati Uniti, la Francia, la Germania, e l’Italia. In Italia il fenomeno fu più clamoroso, e più vasto, perché si accompagnò con una rivolta giovanile e sociale amplissima, che coinvolse una parte molto consistente, e la più attiva, di quella generazione. A me sembra che quasi mezzo secolo dopo quegli avvenimenti sarebbe ragionevole, anche da parte della politica, avviare una riconsiderazione serena su quello che successe in quel decennio.

Cosa osta? Due elementi. Uno, è evidente, è il giustizialismo, che tende a trasformare in revanche e in vicenda giudiziaria tutti i fenomeni violenti e illegali. Senza se e ma. L’altro elemento però è la reticenza dei protagonisti. Non la reticenza giudiziaria, per carità: non credo ci sia più niente da scoprire sul terrorismo rosso, casomai bisognerebbe scoprire tante cose legate al terrorismo nero e a quello di Stato ( le stragi, gli attentati) ma questo è un altro discorso. La reticenza che i protagonisti della lotta armata dovrebbero superare è quella umana. Voglio dire che è difficile discutere con delle persone che quarant’anni dopo non hanno la forza per condannare alcune loro azioni. E’ chiaro che fucilare Moro è stato un gesto incomprensibile e inumano, che non può essere spiegato da nessuna strategia politica perché è in contrasto con qualunque strategia politica. Ora è molto ragionevole discutere di quante responsabilità per la sua morte ricadano sulle spalle di quel pezzo di società politica che rifiutò la trattativa. Benissimo. Ma come si fa a farlo se prima non si mettono dei punti fermi sulla colpa degli esecutori?

Da Moretti e dagli altri capi dell Br è questo che ci si aspetta. La volontà di “esporsi” ad una discussione a tutto campo. Che può avvenire solo se loro compiono un passo di chiarezza. Che non ha niente a che fare con la legislazione sui pentiti, con i benefici di legge, con gli sconti di pena. Ha a che fare solo con la politica.

Così come solo con la politica ha a che fare l’ipotesi della cosiddetta soluzione politica della questione lotta- armata. Attualmente - ce lo ha svelato ieri Milena Gabanelli - ci sono una cinquantina di ex della lotta armata ancora in carcere. Forse un provvedimento di amnistia non sarebbe irragionevole. E sicuramente ci aiuterebbe ad aprire una discussione vera sulla lotta armata.