«Siamo chiamati a molte sfide. Tra le più urgenti c’è la tutela di tutti i giudici, che decidono secondo coscienza e senza lasciarsi condizionare dal sentire comune, dalle aspettative dell’opinione pubblica». Marcello Basilico è una figura di rilievo nel panorama della magistratura associata e istituzionale: presidente della sezione Lavoro al Tribunale di Genova, ora togato al Csm, è esponente di Area, corrente progressista delle toghe, e ha fatto parte del direttivo Anm. Sa bene che il nuovo corso di Palazzo dei Marescialli, di cui fa parte, sarà impegnativo, non foss’altro per gli sguardi severi con cui è osservato. Il che non vuol dire che le correnti, nel Consiglio superiore, debbano essere messe al bando: «Possono esserci diverse idee, nella magistratura, sul nuovo modello di giudice, ed è utile che possano confrontarsi. Che affrontino, innanzitutto, il nodo delle reazioni suscitate a volte dalle sentenze dentro e fuori le aule di tribunale».

Partiamo dal rapporto fra voi magistrati e il vostro ormai ex collega Nordio: può essere condizionato dai giudizi spesso severi che l’attuale ministro esprimeva quando era in toga, soprattutto su Csm e Anm?

No, non credo che il passato di Nordio possa incidere sui giudizi relativi alla sua attuale azione da ministro. Penso davvero di poterlo affermare a nome della gran parte dei colleghi. D’altronde in passato abbiamo visto figure che hanno rivestito cariche nell’ambito della giustizia e che hanno rivelato inclinazioni assai diverse da quanto si potesse immaginare, soprattutto riguardo alla capacità di rappresentare l’ordine giudiziario.

E lei dice che i vecchi contrasti fra Nordio e i vertici della magistratura non faranno innalzare la tensione sulle riforme, per esempio sulla separazione delle carriere?

Direi proprio di no. Anche perché, a maggior ragione se parliamo di riforme costituzionali, eventuali critiche della magistratura non potrebbero appuntarsi solo specificamente sul ministro: entrerebbero in gioco l’intero governo, il Parlamento. Basti pensare a quanto accadde all’epoca della Bicamerale, quando il conflitto fra l’ordine giudiziario e la politica fu aspro e certo non si concentrò sulla sola figura del ministro. Si può fare anche l’esempio della riforma Cartabia: un conto è stata la proposta della guardasigilli, altro è il punto di caduta a cui ha condotto il dibattito parlamentare e che abbiamo appunto criticato.

Ora che le cosiddette degenerazioni del correntismo vanno archiviate, servono ancora le correnti, al Csm?

Intanto c’è un nuovo modello di magistrato da definire in base alle riforme da poco introdotte, alle aspettative che ne derivano in termini di efficacia della risposta di giustizia. Ma pesa anche una società mutata da cui emerge la richiesta di nuove tutele, recepite e segnalate al Parlamento dalla Corte costituzionale. Rispetto a tutto questo è importante eccome che la magistratura si confronti al proprio interno, tra le sue varie componenti. Pensiamo soltanto alla invadenza presente e futura della tecnologia nella giustizia, agli algoritmi e alle sollecitazioni della cosiddetta predittività. E poi c’è una questione ancora più delicata delle altre.

Quale?

A volte manca, nella politica, la consapevolezza che il magistrato deve sapersi distaccare dalle aspettative dell’opinione pubblica.

Cioè la politica “tifa” per la sentenza del processo mediatico anziché per i giudici veri?

Noi come magistrati ci misuriamo di continuo con la complessità, e siamo chiamati a dare risposte complesse. Il punto è che non sempre la società moderna è pronta ad accettarle. È necessario che a tutti i livelli istituzionali si sia disposti a rispettare la decisione di un giudice anche quando non coincide con quella che il sentire comune sollecitava.

E far passare questo messaggio è una sfida per le correnti?

Certamente compito della magistratura associata è far comprendere che le risposte di giustizia, nella loro complessità, non possono assomigliare a un tweet, a un lapidario messaggio sui social.

Magistratura indipendente, in una nota diffusa poche ore fa, chiede tutela per tutti i giudici che si occupano del caso Cospito. Non sarebbe giusto invocarla anche per il giudice aggredito a Rigopiano mentre leggeva la sentenza?

Condivido in pieno l’idea che tutti i magistrati esposti in vario modo a forme di reazione incontrollata da parte dell’opinione pubblica meritino lo stesso grado di tutela. E credo che il discorso valga a maggior ragione quando si tratta di un giudice monocratico, come a Pescara. Il magistrato non decide per il popolo ma in nome del popolo, e lo fa in base alla propria coscienza e agli elementi acquisiti nel processo. Sono questi i suoi riferimenti, non un’aspettativa pubblica di condanna o assoluzione. Poi, a verificare se la sua pronuncia è corretta o sbagliata, potranno essere i successivi gradi di giudizio. Ma sarebbe bello se, sul rispetto di questa idea basilare, tutti gli organi dello Stato facessero quadrato.

Si riferisce anche al tweet diffuso da Matteo Salvini dopo la sentenza su Rigopiano?

Semplicemente, mi aspetto che le istituzioni dello Stato, di qualsiasi grado, si conformino all’unisono a questi principi. In tempi recenti o meno recenti ci sono stati diversi esempi di distrazione.

Caso Sinatra: è giusto, intanto, che nella miriade di chiacchiere intercorse fra magistrati, debba essere incolpata proprio una pm donna che si sfoga per aver subito una molestia, considerato che quelle conversazioni tra lei e Luca Palamara avrebbero dovuto restare segrete, sul piano processuale?

Premessa: mi astengo da qualsiasi commento sulla sentenza disciplinare in questione. Faccio parte dello stesso Csm che l’ha emessa e comunque non ho elementi per stabilire se si tratta di un decisione giusta o sbagliata. Riguardo l’imponderabile meccanismo che finisce per far emergere una certa notizia criminis fra tante condotte, va detto che questa è una dinamica inevitabile, e che ad essere determinante è il comportamento portato, seppur in modo casuale, in evidenza.

Cosa risponde a chi considera paradossale che proprio dalla magistratura sembra arrivare, con la sentenza sulla dottoressa Sinatra, un segnale dissuasivo per tutte le donne che denunciano molestie o violenze di genere?

Si deve ricordare, innanzitutto, che nel caso specifico la molestia non era stata denunciata. E che dunque la vicenda va ricondotta ai suoi connotati effettivi. Anche nel senso di segnalare come non si sia trattato di una molestia consumata all’interno del rapporto di lavoro, cioè tra un procuratore e una sua sostituta: lo dico perché nell’opinione pubblica sembra essere passata un’idea diversa. Detto questo, è inevitabile, su un piano generale e astratto, che una persona vittima di una molestia o di una violenza sia chiamata a rispondere nel momento in cui commette a propria volta un’azione illecita non scriminata dalla legge. In altre parole, un illecito va perseguito comunque, ma certamente la storia di quel fatto rileva rispetto all’entità della sanzione, cioè sul piano delle attenuanti. Nella violenza di genere, è indispensabile tutelare la vittima in modo che sia restituita alla dignità della propria esistenza, ma non nel senso di giustificare eventuali comportamenti illeciti successivi.