«È escluso che la rappresentanza politica si contrapponga alla magistratura, ma è escluso anche che la magistratura abbia la pretesa di essere potere legislativo». A dirlo al Dubbio è l’ex ministro Calogero Mannino, secondo cui il voto del Senato sulla vicenda Open rappresenta «il primo passo» verso una ridefinizione dei limiti tra politica e magistratura.

Il voto del Senato sulla vicenda Renzi è stato sintetizzato da quasi tutte le forze politiche come una difesa non del singolo senatore, ma del Parlamento nella sua interezza. Siamo ad un punto di svolta nel rapporto tra politica e magistratura?

Ritengo che dopo 30 anni il partito post-comunista, cioè il Pd, abbia finalmente scelto di rappresentare il partito delle istituzioni. Sino ad oggi è stato un partito di supporto, di fiancheggiamento aprioristico, pregiudiziale, per logiche di compenetrazione, non soltanto ideologica e politica, agli interessi di quello che fu il Partito comunista. Martedì ha invece dimostrato di voler diventare il partito delle istituzioni. È stata una scelta importante e positiva, non contro la magistratura, ma per la riaffermazione di un punto fondamentale sia dello Stato di diritto sia della legittimità democratica. Senza enfasi e senza retorica, questo obiettivo l’altro ieri è stato pienamente realizzato. Renzi ha svolto la sua autodifesa in modo appassionato, ma anche molto argomentato, creando le condizioni per questa scelta che poi il Pd ha effettuato. È un inizio, speriamo che abbia una sua continuità e soprattutto che abbia i suoi sviluppi, perché l’aspetto più drammatico della crisi politica italiana è la crisi istituzionale. Che non significa un riportare la magistratura all’ordine, ma riportarla nel solco della propria funzione costituzionale.

Renzi ha affermato una cosa molto pesante: i magistrati non sono andati alla ricerca del denaro, ma si sarebbero determinati «come nuovi segretari organizzativi dei partiti». Il suo riferimento agli ultimi 30 anni non sembra casuale, dato che proprio pochi giorni fa si è celebrato il trentennale di Mani Pulite. È la chiusura del cerchio?

L’affermazione di Renzi ha evocato purtroppo un tratto fondamentale di tutta la vicenda Tangentopoli, che si trascina ancora fino ai nostri giorni. Inalterato il discorso relativo al contrasto alla corruzione, il problema del funzionamento degli strumenti della politica, fondamentalmente del partito e, quindi, della sua finanza, è un discorso aperto, che si deve affrontare e si deve risolvere, non lasciandolo in quell’area ambigua nella quale è possibile soltanto, da una parte, la demonizzazione per via mediatica e, dall’altra, la criminalizzazione per via giudiziaria.

Uno degli effetti di Mani Pulite è stata la decadenza dei partiti. Vede una reazione?

Purtroppo è un gioco degli specchi. Se aggredisci la politica, la stessa difficilmente recupera, si riscatta e si porta al proprio livello. Deve farlo attraverso un contrasto che è un chiarimento di confini, di linee, di relazioni. Di regole della relazione, soprattutto.

I referendum, in qualche modo, avevano anche l’ambizione di ristabilire questi confini.

I referendum daranno un contributo. In questo caso, purtroppo, il Pd ha già scelto, in maniera apparentemente logica, affermando che il Parlamento può risolvere alcune questioni legiferando. Ma abbiamo tanti precedenti, del passato anche recente, quasi del presente, che mostrano come il Parlamento, a volte, sia stato molto condizionato da quella azione reattiva di parti della magistratura che ha impedito poi alle forze politiche di scegliere linee che sono state avversate da pezzi della magistratura. Se il popolo si esprimerà in un certo modo, il referendum metterà le cose in modo tale che la politica non potrà che essere consequenziale. Ha un grande valore, in questo senso. Se poi il popolo deciderà in modo diverso il problema rimarrà intatto.

Non c’è solo la crisi della politica, ma anche la crisi della magistratura, come abbiamo visto in particolare negli ultimi tre anni.

Ci sono scontri pesanti all’interno della magistratura. Quella che una volta era la dialettica, il confronto, anche di carattere ideologico-culturale, è diventato uno scontro di potere. Abbiamo - chiamiamolo così - “il manuale Palamara”, che ci ha mostrato le regole che hanno scandito la vita della magistratura. Sono regole di contrasto di potere. Ma questo è un eufemismo, perché sono stati scontri personali, scontri di gruppo, spietati. Ho sentito dichiarazioni terribili - c’è chi ha parlato di bande paramafiose - che se fossero arrivate dall’esterno della magistratura avrebbero scatenato un putiferio.

Le accuse non sono solo quelle della politica alla magistratura, ma anche quelle delle toghe ai partiti: i magistrati hanno aspramente criticato la riforma Cartabia, il decreto sulla presunzione di innocenza e ora anche i referendum, lamentando un attacco che mette a rischio la loro indipendenza. Possiamo definirla una guerra?

Il confronto, anche duro, sarebbe naturale. E sarebbe anche interesse della politica - e della politica democratica - mettere in relazione le singole posizioni. Quello che non è ammissibile sono la pregiudiziale e il divieto, da parte della magistratura, di toccare l’argomento che li riguarda. Questa pretesa, cioè, di assolutezza, perché bisogna chiamarla col nome che merita. Per cui, a questo punto, quella giudiziaria non è più una funzione, ma un potere. Potere che si scontra con altri poteri. Ma qui non c’è più la democrazia e dobbiamo avere il coraggio di essere conseguenti. Il confronto, anche sul testo della Cartabia, sugli altri testi, sugli emendamenti va bene, perché quello della ministra, dico la mia opinione, è un testo che introduce un argomento che ha ulteriori specificazioni, non essendo stato affrontato il problema della riforma del codice di procedura penale. La magistratura non può impedire al Parlamento di fare il proprio lavoro, deve interloquire dialetticamente. Se le correnti in magistratura fossero correnti culturali e politiche ci sarebbe già il veicolo naturale per muoversi. Ma le correnti sono diventate soltanto organizzazioni di potere fine a se stesso e difendono il potere della magistratura a prescindere, al netto delle sue risse intestine. Questo è il grande punto di contraddizione.

Lei ha parlato di una crisi di democrazia, la via d’uscita da questi continui scontri quale potrebbe essere?

Bisogna rovesciare le scelte fattuali che si sono consolidate in questi 30 anni e quindi ridefinire tutto il profilo, anche sotto il punto di vista costituzionale, della naturale relazione tra due poteri diversi dello Stato che non possono contrapporsi. È escluso che la rappresentanza politica si contrapponga alla magistratura, ma è escluso anche che la magistratura abbia la pretesa di essere potere legislativo. Questo è invece avvenuto ripetutamente. Abbiamo episodi, dal 1992 in poi, che sono anche gravissimi. Quello di martedì è un passo opportuno, positivo, che dimostra che adesso anche il Pd, con altre forze politiche, deve affrontare il problema del funzionamento della giustizia in Italia, secondo una logica che sta già dentro la Carta costituzionale.