Le citazioni giuridiche sono noiose lo sappiamo. Figurarsi quando si pretende di fare anche un po’ di storia. Alla noia segue quasi sempre una certa apprensione. Però nella storia del regime speciale di detenzione ( il cd. 41- bis) è avvolto un pezzo di storia del Paese e tutto non si può ridurre ai lai delle solite vestali.

Era il 1986 quando, nel mezzo delle turbolenze penitenziarie in gran parte collegate alla cattura di numerosi terroristi, si decise di introdurre l’articolo 41- bis nell’Ordinamento penitenziario con il fine specifico di contrastare «casi eccezionali di rivolta» o «altre gravi situazioni di emergenza» nelle carceri. Una norma quasi mai applicata che concedeva ai ministri della Giustizia la facoltà di sospendere per un periodo molto circoscritto «l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti». Uno spazio limitato e un tempo limitato. Quanto bastava, insomma, per ripristinare l’ordine carcerario messo in fibrillazione in un certo istituto.

Era il 1992, dopo quella terribile estate di stragi e di sangue, e il governo Andreotti- Martelli decise di stringere le maglie aggiungendo all’articolo 41- bis un secondo comma del tutto inedito: «quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica» il ministro ha «la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti» più gravi «l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti» dall’Ordinamento penitenziario «che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza».

Insieme a questo il drastico irrigidimento del divieto di benefici penitenziari già previsto, nel 1991, con il nuovo articolo 4- bis: mitezza solo per chi collabora con la giustizia. L’epicentro del regime duro fletteva, così, dai luoghi ( le carceri) alle persone ( i detenuti) che si trovavano ristretti per gravi reati, in primo luogo mafia e terrorismo. Non c’erano più rivolte da sedare, ma si doveva proteggere la sicurezza e l’ordine pubblico fuori dalle carceri. Bisognava impedire ai detenuti di proiettare all’esterno delle mura capacità criminali, visioni strategiche e soprattutto uno scellerato dominio. Era un cambio di passo impressionante che, per la prima volta, individuava classi di detenuti ritenuti pericolosi in ragione del loro ruolo nelle associazioni, della loro posizione apicale in esse il tutto a prescindere dal comportamento inframurario.

Il mito del mafioso “detenuto esemplare” e dell’Hotel Ucciardone, dove entravano donne e champagne, si schiantava. I boss capirono di aver a che fare con un’arma nuova, micidiale e imprevista. La peggiore. I suicidi in cella aumentarono vertiginosamente, le isole più temute riaprirono le gabbie, un’imprevista segregazione colpiva i capi mafia impreparati al pugno di ferro. E’ la storia, ancora non del tutto scritta, del papello di Ciancimino, delle revoche dei decreti di 41- bis da parte del ministro Conso, del processo sulla Trattativa in corso a Palermo.

Il regime duro aveva, infatti, una via d’uscita per i mafiosi, era una norma a tempo, destinata a scadere e da rinnovare di volta in volta. Un barlume per trattare, un varco per brigare con la politica collusa. Un progetto infrantosi, però, con la definitiva stabilizzazione del 41- bis imposta alla vigilia di Natale del 2002 dal Governo Berlusconi. Questo all’incirca quanto accaduto tra un nugolo di sentenze della Corte costituzionale ( l’ultima del 2018 ha cancellato di divieto di «cuocere cibi» in cella per i boss), della Cassazione ( il caso Riina in punto di morte) e, ora, della Corte di Strasburgo. Superati noia e fastidio di una storia ricostruita a spanne si impongono alcune riflessioni.

Il regime di carcere duro era, come visto, un protocollo carcerario per sua definizione temporaneo. La logica era evidente, in periodi di eccezionale pericolo per la sicurezza collettiva è legittimo privare i detenuti per gravissimi reati di ogni capacità di manovra all’interno delle carceri e, come detto, verso l’esterno. L’aver reso, tuttavia, questo statuto della detenzione speciale la regola in relazione, si badi bene, a determinate classi di reati ha finito per attirare a sé il faro della giurisdizione di Strasburgo che ora ha imposto all’Italia di modificare il regime duro con una modifica dei divieti di cui all’articolo 4- bis e l’ammissione anche di questi detenuti ai benefici penitenziari sinora interdetti loro per legge, salvo l’ipotesi della collaborazione con la giustizia.

Si tocca, come visto, un ganglio vitale della percezione delle mafie. Per poter prendere una posizione serena e scevra da condizionamenti, non sempre disinteressati, occorrerebbe interrogarsi seriamente su quale sia l’effettiva condizione delle mafie nella società italiana. Una domanda di per sé scomoda e che irrita tanti addetti ai lavori e una certa industria mediatica la quale, tuttavia, non poche volte non è la parte più disinteressata a questo genere di dibattiti. Senza scomodare discussioni che hanno bruciato e spaccato la pubblica opinione già trenta anni or sono ( la presunta querelle tra Sciascia e Falcone che, invece, quest’ultimo ossequiò citandolo in esergo al suo libro più bello), parrebbe evidente che manchi una ricognizione approfondita e rigorosamente documentate circa lo stato di operatività delle principali associazioni mafiose del Paese che hanno subito colpi durissimi dalle stragi del 1992 a oggi.

Come nel 1989 i Vopos della DDR sul muro di Berlino alla sua caduta, i mafiosi potrebbero sparare, ma non possono sparare perché obiettivamente privi di una struttura in grado di resistere ai violentissimi colpi dello Stato. Per dire nel gennaio del 1943, dopo Stalingrado, Hitler aveva perso la guerra, ma ci sono voluti purtroppo altri due anni e mezzo per venirne a capo. La stagione dell’egemonia mafiosa su pezzi significativi della società potrebbe essere trascorsa, ma per stabilirlo sarebbe necessario un approccio laico, privo di propaganda, scevro da carrierismi e capace di tracciare un serio bilancio sui successi ottenuti e su quanto resta da fare.

Il fatto che parecchi invochino lo stato d’eccezione contro la criminalità mafiosa, ma rifiutino di indicare con serietà al Paese entro quando intendano distruggere questa cancrena suscita inevitabili riserve. Forse qui si annida il motivo per cui il Governo italiano non è riuscito a persuadere i giudici di Strasburgo delle proprie ragioni in favore della prosecuzione all’infinito di un regime che, obiettivamente, viola il principio di personalizzazione e di rieducazione della pena e sottopone i detenuti a costrizioni solo in ragione dei reati di cui rispondono. Una maggiore flessibilità, l’abbandono di automatismi e una maggior fiducia verso la magistratura di sorveglianza che presiede alla legalità costituzionale della pena sono possibili solo a questa condizione. Fine pena mai solo se la mafia non avrà mai fine.. Quanto ci mancano Falcone e la sua speranza: spes contra spem.