L’epitaffio del MeToo è stato scritto più volte negli ultimi anni. Qualcuno ha bollato il movimento esploso nel 2017 come una “caccia alle streghe” che non ha retto alla prova dei tribunali, altri sono certi che il colpo inferto al sistema di abusi nel mondo dello spettacolo sia stato ben assestato. Persino lo storico slogan - Believe (all) woman/credi a (tutte) le donne - è motivo di polemica nel dibattito americano: credi alle donne, sì - è il ragionamento - ma proprio a tutte?

«Può succedere, anche se sono casi rarissimi, che una donna menta raccontando un fatto non accaduto e sarà giusto condannarla per questo, ma non per essere stata complice, perché non esiste complicità in uno stupro», dice al Dubbio Dacia Maraini. La quale non ha dubbi: il MeToo è vivo e vegeto.

Ma gli esiti giudiziari delle vicende più note, come la recente assoluzione di Kevin Spacey, hanno decretato anche la fine del Movimento, secondo alcuni.

A me risulta che Spacey sia stato assolto per mancanza di prove, non per inesistenza dei fatti. Comunque non credo affatto che il MeToo sia morto. I movimenti spontanei, soprattutto quelli delle donne, che hanno poca abitudine storica all’organizzazione sociale, hanno un andamento carsico. Spariscono e poi rispuntano in occasioni diverse.

Chi è stato critico nei confronti del Me Too ha evidenziato la deriva giustizialista che avrebbe danneggiato il movimento travolgendo anche il femminismo. Cosa ne pensa?

I movimenti per i diritti delle donne hanno sempre suscitato nervosismo e spirito di vendetta. Se si vanno a leggere le reazioni alle suffragette che chiedevano il diritto di voto, si trovano le stesse insofferenze, gli stessi insulti e quello che è peggio, le stesse prese in giro. Le coraggiose suffragette sono state ridicolizzate sia con articoli che con film e testi teatrali.

In un editoriale del 2018 dal titolo “Sono una cattiva femminista?”, Margaret Atwood sostiene che il MeToo sia il «sintomo di un sistema legale che si è inceppato. Troppo spesso, in passato, le denunce delle donne e delle altre vittime di abusi sessuali non avevano ricevuto la giusta attenzione presso le istituzioni, quindi si è trovato un nuovo strumento: Internet». È d’accordo? Il disaccordo ci rende “cattive femministe”?

Sinceramente non capisco cosa voglia dire essere cattive femministe. O si è dalla parte dei diritti e delle libertà o si è contro. I nomi che si danno ai vari movimenti dipendono dal momento in cui nascono. Internet è uno strumento che può essere usato bene o male come tutti gli strumenti. Dipende da chi li usa e per quale ragione.

In un suo recente articolo Lei ha scritto: «L’idea che la donna stuprata debba dimostrare che non c’è stato consenso è aberrante». Vale sempre?

Se una persona viene rapinata e va a denunciare non le si chiede se sia stata connivente. Lo stupro è una rapina. Può succedere, anche se sono casi rarissimi, che una donna menta raccontando un fatto non accaduto e sarà giusto condannarla per questo, ma non per essere stata complice, perché non esiste complicità in uno stupro.

Lo slogan recita: “Believe women”. E non “believe all woman”: c’è una differenza, come si sottolinea nel dibattito americano?

Believe Woman è un invito a dare maggiore fiducia alle donne, che troppo spesso non vengono credute. La cronaca ci racconta casi drammatici di donne che hanno denunciato varie volte le violenze familiari ma non sono state prese sul serio. E alla fine sono state uccise...

La legge italiana, a suo parere, tutela le donne che subiscono violenze o le rende vittime due volte?

La legge italiana parte da una cultura arcaica in cui le donne erano proprietà del padre o del marito e quindi non avevano diritto a un pensiero e una volontà proprie. Oggi, soprattutto nei paesi democratici, abbiamo fatto dei grandi passi avanti rispetto al passato. Abbiamo ottenuto un certo grado di parità. Ma proprio queste nuove libertà femminili non vengono tollerate da quegli uomini che identificano la propria virilità col possesso e il dominio sulla donna che hanno accanto. Sia chiaro che non parlo di una guerra fra i due sessi, ma di due culture, una tradizionale che non crede nell’evoluzione dei costumi, e una che si fida della storia e sa che le cose cambiano in continuazione e che il tempo non si può fermare, ma solo guidare con intelligenza e giustizia.

Quando è esploso il caso La Russa Jr, le militanti di Non una di meno Milano hanno affisso dei cartelli di protesta con il volto del presidente del Senato e di suo figlio Leonardo Apache, con lo slogan “el violador eres tu”. Come giudica la protesta?

Le proteste quando sono pacifiche, sono da considerarsi legittime. Comunque non mi sembra un insulto gratuito ricordare al ragazzo che il violentatore è lui. Troppo spesso si rovesciano le verità e si cerca di rendere colpevole la vittima accusandola di avere bevuto, di essersi messa la gonna corta, di avere accettato una compagnia non ben conosciuta, ecc. Sono giustificazioni ingiustificabili. Lo stupro per me è un atto di aggressione sociale e culturale, che compie un uomo fragile e impaurito per ribadire la sua superiorità e il suo diritto secolare alla superiorità sulla donna.