Ieri è stato nostro ospite allo stand del Dubbio al Salone internazionale del Libro di Torino Fabrizio Berruti, autore del libro “Gabriel. Non ho ucciso nessuno”, con la prefazione di Roberta Petrelluzzi. (Round Robin Editrice, euro 12). Gabriel è il giovane americano condannato in concorso per l’omicidio del vice brigadiere Mario Cerciello Rega. Berruti, giornalista, scrittore, autore e regista televisivo, Berruti ha lavorato con Massimo Sani, Giovanni Minoli e Sergio Zavoli per la realizzazione di programmi di approfondimento giornalistico. Ha diretto documentari per la RAI sul delitto Calabresi, su Pasolini, Pertini e la storia della scorta di Aldo Moro. Attualmente si occupa di programmi di genere true crime per la RAI e per Discovery. Autore del programma “Commissari” (Raitre) e capoprogetto e regista di “Detectives” (Raidue), in collaborazione con la Polizia di Stato.

Come mai hai scelto di scrivere questo libro?

Io mi occupo di casi di cronaca giudiziaria da anni, partendo sempre dalla lettura delle carte processuali. Essendo di Roma, quella vicenda dell’estate del 2019 mi ha molto colpito: inizia a Trastevere, dove due giovani turisti americani decidono di passare la serata insieme e acquistare mezzo grammo di cocaina e termina in Prati, con la tragica morte del vice brigadiere Mario Cerciello Rega. Due giovani turisti coinvolti in una storia più grande di loro, che sarebbe potuta capitare a chiunque. I due aspetti che più mi hanno colpito sono la tragica concatenazione degli eventi e quella foto di Gabriel con la benda sugli occhi nella caserma dei carabinieri. Vedere quella immagine mi ha terrorizzato. Quella foto e quel video, che hanno fatto il giro del mondo, per me avevano la stessa potenza di quella con i ceppi ai polsi di Enzo Carra. Quel video di quel ragazzo bendato e ammanettato dietro la schiena è qualcosa che fa male vedere in una democrazia, in uno Stato di diritto. Qualsiasi reato una persona abbia commesso, o non commesso, non merita quel trattamento. Da subito ho iniziato a seguire con attenzione la vicenda e mi sono accorto pian piano che qualcosa non tornava nella ricostruzione dei fatti. Non dimentichiamoci che venivamo dalla vicenda di Stefano Cucchi e dai depistaggi messi in atto da alcuni esponenti dell’Arma dei Carabinieri. Ho cominciato a seguire tutte le udienze su Radio Radicale, perché a causa del covid era difficile entrare in aula.

Cosa ti ha colpito di più dal punto di vista giudiziario?

Il fatto che la sentenza sembrava fosse già scritta fin da subito: quei due ragazzi erano colpevoli. Questa sensazione era anche promossa da come è stato diretto il processo dalla Presidente della Corte di Assise. Quasi ogni volta che i difensori dei due imputati cercavano di mettere in difficoltà i testi dell’Arma, venivano interrotti dalla magistrata che li ammoniva dal mettere in dubbio le parole dei carabinieri. Ma l’esame dei testimoni, la cross examination, è proprio quello che un avvocato deve fare in un’aula di giustizia al fine di ricostruire i fatti. C’era poi la questione del tesserino, sulla quale anche la Corte di Appello ha mostrato dei dubbi sul fatto che siano stati esibiti. In conclusione, leggendo con attenzione le carte del primo e secondo grado e le relative sentenze, mi sono convinto che le tante prove emerse e le perizie del Ris non sono state adeguatamente valutate.

E dal punto di vista umano?

Mi ha colpito come da un giorno all’altro un ragazzo di 18 anni possa vedersi sconvolta la vita entrando in carcere, accusato di concorso in omicidio in una storia nella quale il suo ruolo appariva sin da subito assolutamente marginale. Per scrivere il libro ho trascorso del tempo con i suoi genitori, lo zio e i nonni di Gabriel, catapultati anche loro in un incubo. Ho letto le carte processuali e studiato gli atti e mi sono avvicinato alla storia di Gabriel perché, a mio parere, è stato condannato ingiustamente per concorso in omicidio, pur non avendo ucciso nessuno e non sapendo che l’altro ragazzo avesse preso con sé un coltello.

Come è stato il tuo incontro con Gabriel?

Il mio incontro con Gabriel è avvenuto tramite le lettere che si scambiava con i suoi familiari e le conversazioni che aveva con loro nelle visite in carcere. Avevo richiesto la possibilità di incontrare Gabriel in carcere, ma non ho ricevuto l’autorizzazione. Avevo due preoccupazioni: rimanere fedele alle risultanze degli atti e rispettare tutte le vittime di questa tragedia. Alla fine, è uscito un libro che è un mix di racconto giudiziario e umano.

Che giudizio dai di come i media abbiano trattato questa vicenda?

Nel caso Cerciello Rega si è cavalcato il tema della sicurezza. Molta stampa, senza neanche conoscere gli atti processuali, si è schierata dalla parte dell’accusa; altri invece, come il vostro giornale, si sono posti il dubbio, hanno cercato di capire come sono andate realmente le cose quella notte.

Eravamo entrambi in Cassazione quando i giudici hanno deciso per un nuovo appello. Nutri speranze?

Qualche giorno prima della decisione della Cassazione era uscito questo libro e non nascondo una certa soddisfazione per come sono andate le cose a Piazza Cavour. I giudici in Cassazione hanno annullato la sentenza d’appello in merito al concorso di Gabriel nell’omicidio e ora bisogna attendere le motivazioni per sapere che margini gli ermellini offrono ai nuovi giudici di Appello.