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MARIO SERIO COMPONENTE COLLEGIO GARANTE NAZIONALE DIRITTI PERSONE DETENUTE
Sovraffollamento carcerario, diritti dei detenuti, stato dei Cpr e deriva securitaria: Mario Serio, componente dell’Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, analizza con il Dubbio il sistema penitenziario italiano. Dalla recente decisione della magistratura olandese alla mancata riforma del regolamento del Dap, Serio affronta senza retorica i nodi strutturali di una crisi ignorata o rimossa, e rilancia il tema della dignità come fondamento dello Stato di diritto.
I giudici olandesi hanno negato l’estradizione di un giovane accusato di omicidio sostenendo che le carceri italiane sono inumane. Crede sia un’esagerazione?
È un problema che investe la credibilità dell’Italia. Anche perché è veramente paradossale che questa forte tensione punitiva, securitaria poi naufraghi e venga resa impossibile dalla condizione delle carceri, al punto di non rassicurare gli Stati stranieri.
L’Olanda contesta una situazione che era stata stigmatizzata dalla Cedu nel 2013. Siamo davvero fermi alla sentenza Torreggiani?
Può residuare il dubbio che non vi sia stato questo aggiornamento dei dati rispetto a quella sentenza. Non possiamo escluderlo. Però i veri dati li conosciamo comunque: basta leggere la relazione della Corte dei conti, che parla di un sovraffollamento superiore al 120%. Mettiamo anche sul piatto della bilancia la vetustà delle strutture dal punto di vista architettonico, notissimi momenti disfunzionali come la mancanza a volte di riscaldamento, talvolta di acqua calda, la mancanza di spazi ricreativi idonei. Di fatto, nel 2025, i problemi rimangono. Aggiungiamo anche che dal dicembre 2024 il Dap è privo di un titolare.
Come incide sulla gestione del sistema penitenziario?
Sul piano pratico abbiamo un capo facente funzioni che si impegna, ma l’assenza di una figura strutturale pesa. Un conto è avere la titolarità di una funzione così elevata, un conto è, invece, svolgere questa azione in modo precario. La precarietà induce prudenza e rallenta riforme strutturali e magari ci si astiene dall’adottare iniziative più incisive e di carattere maggiormente strutturale. E questo è indubitabile.
Quando si parla di sovraffollamento o di suicidi in carcere, però, la risposta che ci viene data dalle istituzioni è la costruzione di nuove carceri. Come in tanti hanno già chiarito non è una soluzione, ma anche a volerla attuare ciò richiede del tempo ed in questo tempo il numero dei detenuti continuerà a crescere, visto che aumentano anche i nuovi reati. Qual è, allora, la risposta che possiamo dare a questo problema?
Bisogna partire dalla consapevolezza dell’esistenza del problema. Se chi decide avesse piena consapevolezza del problema, sarebbe già corso ai ripari. La costruzione di nuove carceri, naturalmente, è inconciliabile con l’urgenza dei tempi. Il problema del crescente numero dei suicidi in carcere implica, poi, il riconoscimento della esigenza di una rete di assistenza psicologica più estesa di quella qualificata già esistente. D’altro canto, sconta anche la mancanza di previsioni di condizioni di vita nel carcere: lavoro, svago, relazioni sociali che, ove esistenti, probabilmente dissuaderebbero dal compiere gesti estremi.
Consapevolezza o volontà? Il problema viene posto periodicamente, però si continua a parlare di certezza della pena, di garantismo nel processo e di giustizialismo dopo il processo…
È innegabile, soprattutto a proposito della ventilata possibilità di amnistia e indulto, che si sia sentito un linguaggio che va in una direzione opposta, per cui non sempre è facile distinguere tra mancanza di consapevolezza e approccio culturale punitivo. Ma il tentativo di distinguere può essere un esercizio puramente retorico e privo di effetti pratici. Quel che conta è invece l’analisi del fenomeno, che è certamente allarmante. A questo punto c’è da sperare che gli appelli che sempre più si intensificano e che provengono da settori disparati della vita civile, dall’Accademia, dall’avvocatura, dalla stessa magistratura di sorveglianza trovino una risposta. E per quanto attiene all’incremento incessante di figure di reato, si è significativo che si siano mobilitati non solo i penalisti ma anche i giuristi che si occupano di diritto amministrativo, di diritto costituzionale, di diritto pubblico. Non può essere considerato come un fenomeno di politicizzazione dell’Università, ma una schietta analisi in termini di aderenza al dato costituzionale di queste misure.
Per quanto riguarda il dl sicurezza, c’è effettivamente un’emergenza tale da imporre uno scavalcamento del Parlamento?
Mi limito ad un’osservazione di carattere tecnico. Ci troviamo di fronte ad un provvedimento legislativo che inizialmente ha assunto le sembianze del disegno di legge, pendente già dalla tarda primavera del 2024, tanto che il garante aveva espresso un parere. E improvvisamente, senza che siano almeno apparentemente mutati i parametri che avevano consigliato la strada del disegno di legge, si imbocca quella del decreto, un provvedimento che implica la ricorrenza di presupposti di necessità e d’urgenza chiaramente enunciati. Quello che io da giurista mi chiedo - dati l’insegnamento della Corte costituzionale ed i ripetuti appelli del capo dello Stato nel senso di una interpretazione molto rigorosa delle condizioni legittimanti l’adozione del decreto legge - è: c’è stata, effettivamente, questa analisi?
C’è un altro tema: i detenuti in attesa di giudizio. Questa pena anticipata può essere evitata in qualche modo?
Sicuramente è una causa di aggravamento della presenza di detenuti in carcere. Non si può in linea generale abolire la custodia cautelare, credo però che la selezione accurata da parte del gip, oggi resa ancora più puntuale dopo l’introduzione dell’interrogatorio obbligato, sia una strada che può portare, sul piano fattuale, ad un decremento delle presenze nelle carceri.
In un recente incontro a Rebibbia, i detenuti hanno spiegato di voler essere visti. Il carcere è un luogo fatto per separare, per non far vedere, perché è un mondo che disturba…
È verissimo. E voglio ricordare quell’appello, anche autorevolmente fatto da magistrati di sorveglianza, secondo i quali tutti, a turno, dovremmo trascorrere un breve periodo in carcere per comprendere la realtà. È vero, il carcere è considerato un non luogo e questo sicuramente ha dei riflessi negativi anche nelle valutazioni politiche, in termini di consenso. Una maggior diffusione della conoscenza della realtà carceraria, sicuramente, produrrebbe un risultato positivo, perché chiunque poi visiti un carcere sarebbe costretto a rivedere i propri meccanismi psicologici di pregiudizio e tendere a solidarizzare con chi soffre, con chi si vede negato qualunque diritto all’umanità.
Il regolamento del Dap è fermo al 1975. Va riscritto?
Credo che il regolamento non possa non tenere conto dell’evoluzione anche sul piano tecnologico, della comunicazione, della maggior diffusione di agi e stili di vita che naturalmente rendono incompatibili quelli precedenti, più spartani e meno e meno adusi al progresso.
Il deputato Roberto Giachetti, insieme a Nessuno tocchi Caino, ha presentato una proposta sulla liberazione anticipata, uno di quei temi un po’ difficili da digerire per un governo che ha scelto di attuare politiche securitarie. Lei cosa ne pensa?
Era un provvedimento molto prossimo alla dirittura d’arrivo. Già un anno fa il Garante fu ascoltato dalla Commissione giustizia della Camera. Da allora è come se il tema fosse soggetto a narcosi o addirittura si trovasse in una condizione letargica. È necessario che si dia una risposta: si è aperto un itinerario parlamentare, lo si conduca fino alla fine con l’esito che poi naturalmente le assemblee parlamentari vorranno dare.
Lei, come componente dell’ufficio del Garante, si occupa prevalentemente di migranti. Un anno fa ha incontrato Papa Francesco e su questo ci ha invitati addirittura ad “abbaiare”. Qual è la situazione dei Cpr?
Il problema è complicato da una carenza di fondo, sulla quale aspettiamo il 9 giugno una pronuncia da parte della Corte costituzionale. C’è una netta asimmetria tra la posizione del detenuto e quella del migrante. Nel caso in cui venga negato un beneficio, infatti, il detenuto può utilizzare degli strumenti di contestazione del diniego, il migrante no. È una sorta di non entità dal punto di vista ordinamentale. Questo è un vuoto di tutela fondamentale e c’è da auspicare che il Parlamento europeo, in sede di esame e conseguente approvazione del nuovo regolamento rimpatri, introduca una o più disposizioni aventi comunque un carattere sistematico, che descrivano la condizione statutaria del migranti. Questo è un passo senza il quale i centri di permanenza per il rimpatrio saranno luoghi di sofferenza ingiustificata e di totale assenza dello Stato di diritto.