Inutile girarci attorno: siamo un Paese senza. Senza una classe dirigente, senza una bussola programmatica e valoriale per competere nell’epoca della globalizzazione e della destrutturazione degli equilibri geopolitici. Senza un piano di riforme praticabili che ammodernino le istituzioni. E Senza leadership credibili e autorevoli. Siamo un paese senza... senza valori senza leadership, senza un piano

Inutile girarci attorno. Le cifre elettorali, i fatti politici e economici, gli attori sociali, insomma quel grande aggregato che chiamiamo realtà certifica una verità che è sotto gli occhi di tutti, a patto che si voglia vederla: siamo un Paese senza. Senza una classe dirigente ( non solo politica, ma principalmente politica) all’altezza dei compiti. Senza una bussola programmatica e valoriale per competere nell’epoca della globalizzazione e della destrutturazione degli equilibri geopolitici. Senza un piano di riforme praticabili che ammodernino le istituzioni, perchè la piattaforma sottoposta al referendum costituzionale si è trasformata in un rodeo di personalismi e gli italiani l’hanno affondata.

Senza leadership credibili e autorevoli. Quella di centro- destra capitanata da Silvio Berlusconi, infatti, ventidue anni fa precipitò come un’astronave aliena sul Palazzo per impedire che i post- comunisti di Achille Occhetto arrivassero finalmente al potere. Doveva raccogliere la “novità” di un’Italia trasformata e vogliosa di modernità sotto il profilo della concorrenzialità tra partiti, finalmente privata dei lacci dell’ideologia e riorganizzata anche nei modelli istituzionali: bipolarismo; maggioritario; premier se non eletto direttamente almeno “unto” dall’investitura popolare.

Doveva tagliare le tasse e azzerare la burocrazia, con l’obiettivo di rovesciare l’Italia come un calzino. E’ finita che via via quello stesso elettorato ha rovesciato chi si era presentato per rovesciare. Berlusconi, è vero, conserva ancora una forza e un notevole potere di interdizione. Ma non ha, né vuole, eredi: preferisce il casting.

Anche a sinistra una classe dirigente latita e, adesso, anche una leadership. L’era dei “professionisti” della politica cresciuti all’ombra della scuola della Fgci, Federazione giovanile comunista, squaderna un bilancio in rosso fisso. Quel professionismo - accanto ad alcuni importanti risultati che non sarebbe corretto trascurare - ha prodotto arroganza, ipocrisia, premiazione correntizia al posto della valorizzazione del merito e antipatia, disorientamento, disaffezione nei cittadini. Doveva ( e per certi versi lo è stato) essere Romano Prodi il protagonista di una nuova fase, bonificando gli steccati della filiazione e dell’appartenenza partitocratica. I 101 che, in una condizione generale di drammatica difficoltà, gli hanno sbarrato la strada del Quirinale sono la riprova del fallimento di quel progetto.

Anche per questo quando si presentò Matteo Renzi in tanti hanno immaginato che l’orologio dell’innnovazione potesse rimersi in moto. Vero, la sua storytelling - o se si preferisce, narrazione - aveva il sapore del blairismo anche se fuori tempo massimo: comunque una novità assoluta per le nostre latitudini politiche. E in più portava un’energia e una virulenza che apparivano capaci di consegnare agli archivi i passi perduti nel Transatlatico in favore di una recita di slides tanti accattivanti quanto rivoluzionarie. Il 60 per cento di No referendari ha seppellito quella prospettiva, lasciando un cumulo di macerie e la voglia di scagliarsi addosso insulti: quelli di Giachetti a Speranza sono solo la punta dell’iceberg, lo sanno tutti. E al dunque pure Renzi si autogratifica della recita in solitaria: anche lui eredi non ne ha e non ne cerca. Soprattutto non ne vuole.

Ma l’Italia è un Paese senza anche per quel che riguarda le alternative. La più convincente doveva essere rappresentata dall’irrompere sul proscenio dei Cinquestelle. Spettava a loro, anche a costo di chiudere le orecchie e le menti al turpiloquio intriso di demagogia di Beppe Grillo: anzi casomai proprio in virtù di quelle caratteristiche. Ma i Vaffaday sono un conto; governare realtà complesse come Roma è un altro. Il contrappasso del professionismo politico non può essere l’incompetenza. Il rifiuto della cooptazione giocata sul registro della affidabilità che significa obbedienza al potente, al “capo”, non può mai trasformarsi nella roulette obliqua della selezione fatta via Internet, magari all’insegna di un algoritmo individuato sulla base del miglior offerente. Anche economico.

Il discorso potrebbe/ dovrebbe allargarsi alle fasce sociali, agli attori che operano nel mare vasto delle professioni e delle organizzazioni. I numeri uno della Confindustria e della stragrande maggioranza della burocrazia fanno parte di quel 40 per cento che il 4 dicembre è stato sconfitto. In molti casi quegli stati maggiori sono stati sconfessati dalla gran parte dei loro stessi aderenti.

Il quadro è cupo. La classe dirigente tradizionale non è più riconosciuta ed è delegittimata dai cittadini. Quella che si è presentata per sostituirla rischia di affondare sotto i colpi dell’inettitudine e dell’incapacità, con sconfinamenti verso connivenze discutibili. E come sempre c’è chi sciaguratamente pensa che le manette possano essere la cifra della palingenesi.

Lo smarrimento dell’opinione pubblica è denso e palpabile. Senza sbocchi, diventa il ricettacolo di una miscela pericolosa fatta di rabbia, rancore, ricerca di un capro espiatorio. In questa nebbia che chissà ancora per quanto ci avvolgerà, due barlumi agiscono. Il primo è rappresentato dal governo e dal nuovo presidente del Consiglio. Perchè di un governo un Paese grande ed importante come il nostro ha assoluto bisogno. Un timoniere che cerchi, con i limiti imposti dalla situazione, di affrontare le emergenze che ci circondano. L’altro è il garante delle istituzioni che sta sul Colle. E’ l’arbitro che deve imporre il rispetto delle regole e far funzionare il sistema anche quando il collasso è in agguato.

Due barlumi: non tanto e non solo per le persone bensì per le funzioni ed il ruolo che esercitano. Teniamoceli stretti. Chi punta a destabilizzarli per i propri, ancorché legittimi, interessi personali, non fa il bene dei cittadini. Fa confusione.