La notizia che uno dei centri antiviolenza di Roma rischia lo sfratto poche ore dopo la barbara uccisione di Sara Di Pietrantonio, non è un caso. Non è la coincidenza creata da un destino cinico. No, purtroppo non è così. È invece il segno di un fenomeno molto più esteso, che mette sotto accusa le istituzioni. Oggi i rappresentanti delle istituzioni piangono con noi, ma domani molto probabilmente si dimenticheranno nuovamente che tra i loro compiti principali ci sarebbe quello di prevenire la violenza sulle donne.In questi anni il tema del “femminicidio” ha conquistato il dibattito politico e mediatico, ma questo non è bastato a mettere a fuoco il problema. La retorica con cui si affronta questo terribile problema non ha fatto fare il salto di qualità che servirebbe a realizzare qualcosa di concreto perché la mattanza nei confronti delle donne venga davvero sconfitta.È quello che lamentano i centri antiviolenza riuniti nella sigla Di. Re. Sono in tutto 74, distribuiti sul territorio nazionale. Ogni giorno combattono una doppia battaglia: contro la violenza maschile e contro le istituzioni che li lasciano soli. Il Piano antiviolenza, approvato insieme alla legge 119 sul “femminicidio”, non è mai partito, nonostante i tavoli si siano riuniti più volte. La normativa del 2013 prevede inoltre due stanziamenti, ma solo uno è andato a buon fine due anni fa. Il secondo, tanto atteso, non è mai arrivato nelle casse delle Regioni e quindi dei centri antiviolenza. Nonostante il lavoro prezioso che viene fatto, i centri navigano a vista, sulla base di progetti a scadenza che impediscono di operare con serenità.Eppure sono questi luoghi la scommessa. È qui che le donne che subiscono violenza trovano ascolto, assistenza, competenza e una possibilità unica: quella di salvarsi. La denuncia nelle mani dei centri antiviolenza diventa prevenzione, cura, costruzione di quella consapevolezza di sé che spesso sono il vero strumento per salvarsi. Ma più si parla di “femminicidio”, più si alzano urla di sdegno, più sembra che non si riesca a lavorare sulla prevenzione.Oltre al finanziamento del Piano antiviolenza, c’è un altro passaggio che andrebbe fatto. È quello dell’educazione sentimentale nelle scuole. È questo uno dei tasti più importanti, più delicati. Si deve trovare il modo di andare in mezzo ai giovani uomini per spiegare loro che amore non vuol dire possesso, che amare una donna non significa pensarla come un oggetto, come una cosa di cui disporre a proprio piacimento. Spesso i casi di femminicidio sono legati a una separazione: l’uomo lasciato non sopporta di essere abbandonato, non tollera che la ex possa rifarsi una vita. E’ in questo punto dolente dell’identità maschile che si deve intervenire, cambiando una cultura e un immaginario che oggi molti uomini stanno mettendo in discussione ma che resta radicata in diversi di loro.Finalmente, dopo un vuoto durato un po’ troppo, il premier Matteo Renzi ha nominato Maria Elena Boschi come ministra delle Pari Opportunità. Il suo compito dovrebbe essere proprio quello di far ripartire i fondi e una campagna nelle scuole. Non ci aiuteranno a dimenticare l’orrore di una giovane donna morta semi carbonizzata, di una vita spezzata per mano di un ex, dell’ennesima volta che un uomo scambia l’odio per amore. No, non dimenticheremo mai ciò che ha provato Sara. Ma solo prevenendo potremmo far sì che in Italia ci siano sempre meno donne che muoiono perché vogliono vivere libere la loro vita.