Il post del magistrato Sebastiano Ardita sul caso di Giulia Tramontano ha suscitato molte polemiche. Ne parliamo con il giudice Aldo Morgigni, già consigliere del Csm.

Condivide quanto detto dal suo collega Sebastiano Ardita?

Senza entrare nel merito, in quanto non mi esprimo su vicende che non conosco nei dettagli, posso dirmi completamente d’accordo con quanto letto. E partirei dall’ultima parte del post: il problema purtroppo sono le posizioni dei parenti della vittima. Intanto la partecipazione alle fasi decisionali del processo è marginale, soprattutto per quanto concerne l’applicazione della pena. Inoltre non intervengono neanche durante un eventuale procedimento di sorveglianza.

Dal post si evince che l’indagato sia irrecuperabile, se il dottor Ardita mette in discussione il sistema di benefici.

In generale posso dire che esistono una serie di istituti premiali importanti perché bisogna attuare l’art. 27 della Costituzione. Tuttavia ci sono principi convenzionali, assunti per esempio in sede europea, che tutelano in modo particolare le vittime di particolari reati. Bisognerebbe che i congiunti delle vittime o le vittime stesse avessero più voce in capitolo anche in merito al percorso trattamentale del condannato.

Se dovessimo prendere in esame anche il parere della vittima o dei parenti, per reati molto gravi non spenderebbero forse mai una parola favorevole per l’ottenimento dei benefici.

Io non penso ad un potere di veto, ma la possibilità - non vincolante ai fini della concessione del beneficio - di esprimere la propria opinione. Di questo dovrebbe farsi carico il legislatore.

Ma la strada migliore sarebbe quella propria della giustizia riparativa.

In quel caso però occorre il consenso di entrambe le parti.

In quello che propone lei su cosa si baserebbe il giudizio del familiare? Chi è interno al carcere può fornire al magistrato di sorveglianza elementi concreti, una vittima cosa potrebbe mai aggiungere?

La vittima potrebbe riferire se ci sono state forme di contatto col condannato. Alcune volte potrebbero cercarli per chiedere perdono, altre addirittura per minacciarli.

Ma ciò non esclude che una lettera di ravvedimento possa essere solo un escamotage, come fanno i pentiti quando mentono per ottenere sconti di pena.

Questo rischio esiste, come esiste anche per le eventuali dichiarazioni del condannato in merito al suo cambiamento. Noi giudici siamo sempre in balia di qualcuno che potrebbe mentire.

Però il giudice è una parte imparziale, la vittima no.

Certo, ma allora non dovrebbe costituirsi neanche parte civile nel processo.

Alcuni giuristi, come Ennio Amodio, sostengono proprio questo perché vediamo processi con molte parti civili che mettono la difesa nella posizione di giocare contro due avversari.

Dicevano i romani: actus trium personarum, ossia il giudice, uno che chiede e uno che si oppone. Quindi per me un provvedimento di sorveglianza senza la partecipazione di chi ha subìto il reato è una circostanza iniqua. Quello che dico io è previsto dalla Convenzione europea dei diritti delle persone offese.

Una cosa è la persona offesa, altra cosa sono le parti civili.

Certo, ma nel 90% dei casi coincidono le due posizioni. Quando siamo in presenza di un omicidio i prossimi congiunti esercitano i diritti della persona deceduta.

Un suo collega magistrato nel commentare il post di Ardita mi ha scritto: “la paura del sistema penale, quale strumento di prevenzione generale è proprio una bufala. Il resto è espressione tipica del populismo penale imperante”.

Il collega Ardita è un profondo conoscitore della fase processuale e di quella dell’esecuzione. Non mi sembra che abbia detto nulla di sconvolgente. Probabilmente, poi, le cose scritte si possono interpretare in più modi. A me sembra che lui abbia voluto solo dire: non dimentichiamoci delle vittime di reato.

Io invece ho letto il post di Ardita in questo senso: certezza della pena vuol dire che la persona condannata deve scontare in carcere fino all’ultimo giorno di reclusione, senza sconti o benefici. Ma questi ultimi fanno parte delle regole del nostro Stato di Diritto.

In generale il fatto che esistano dei benefici previsti per legge è del tutto normale. Poi come vengono applicati va valutato caso per caso. Beccaria diceva che le pene dovevano essere miti ma dovevano essere applicate fino in fondo per evitare che gli uomini onesti odiassero le leggi.

E la nostra Costituzione parla di ‘pene’ e non di carcere.

Non c’è dubbio. Comunque fino ad ora la pena più idonea che siamo riusciti a trovare per contenere la pericolosità è il carcere modulato in base ai principi di rieducazione.