L’attività legislativa è diventata prerogativa del governo, riservando al parlamento un ruolo di mera ratifica, salvo nei periodi di incertezza sui numeri, quando le Camere tornano a dire la loro. È il governo che fa le leggi il Parlamento ridotto a mera ratifica

Non ci sono regole specifiche, fuori dall’articolo 92 della Costituzione, che stabiliscano tempi e modalità concrete attraverso cui si giungerà alla formazione del nuovo governo. Di fatto, il tutto viene lasciato alla valutazione del capo dello Stato secondo i percorsi informali più volte ricordati in questi giorni. Siamo in una Repubblica parlamentare che non conosce il premierato - nonostante la leggerezza con cui viene spesso evocato il termine come sinonimico di presidente del Consiglio, in un soprassalto esterofilo che racconta molto della cultura istituzionale di politici e media italiani - e dunque basa la sua forza democratica sulla centralità del Legislativo. Che, però, negli ultimi cinque lustri, più o meno, si è andata sempre più illaguidendo, in favore dell’Esecutivo, con la cessione di quote sempre più alte di potere normativo e non solo. La centralità del Legislativo, massima negli anni della proporzionale e della conventio ad includendum esercitata per via parlamentare dalla Dc in favore del Pci, comincia a scemare già nei primi anni del berlusconismo con l’ingresso nella prassi politica dell’idea di un governo egemone sul Parlamento in quanto espressione di una maggioranza scelta dai cittadini con il nuovo sistema elettorale semi- maggioritario. Si introdusse, così, la prima forma surrettizia di premierato all’italiana: il capo della coalizione vincente ed autosufficiente non poteva non essere anche il capo del governo e il presidente della Repubblica non poteva far altro che registrare ed assumere il responso del popolo. Così da far gridare allo scandalo i neopuristi dal cuore maggioritarista, quando Scalfaro nel 1995 decise di non sciogliere le Camere e di dare l’incarico a Lamberto Dini, dopo le disavventure giudiziarie del presidente Berlusconi.

Col cosiddetto sistema elettorale Porcellum, peraltro, si canonizzò l’automatismo necessario del conferimento dell’incarico formalizzando la figura del capo della coalizione. In sovrappiù, per rendere più morbido ed arrendevole il ceto parlamentare, si aborrì il voto di preferenza come fosse l’incarnazione del demonio e, dal Mattarellum in poi, si introdussero i listini bloccati. Prima solo il 25 per cento degli eletti, poi il 100 per cento, oggi il 64 per cento. Dimodochè il capo del governo- capo del partito fosse anche quello che compila le liste: e come si fa a dire di no a colui a cui devi il mandato? E infatti si dice sempre di sì. E’ accaduto, allora, insieme a molte altre cose, che anche l’attività legislativa diventasse praticamente una prerogativa esclusiva del governo, riservando al Parlamento un ruolo di mera ratifica, salvo che nei periodi di incertezza sui numeri, quando le Camere tornavano a dire la loro. Qualche dato? Se nella prima Repubblica il rapporto tra iniziativa legislativa del Parlamento e iniziativa del Governo era ancora del 57 contro il 43 per cento ( XI Legislatura), con l’avvento della seconda Repubblica si ha il crollo dell’iniziativa parlamentare al 17 per cento contro l’ 87 ( XII, 1994-’ 96), per poi restare intorno al 20 per cento contro l’ 80 nelle successive ( 23 per cento contro 77 nella XIII; 20 per cento contro 80 nella XIV; 18 per cento contro 82 nella XVI), fatta eccezione per la XV quando solo 11 leggi su 100 videro origine in Parlamento. Nella legislatura appena trascorsa, la Camera toccò miracolosamente il 29 per cento di approvazioni di leggi originate dal Parlamento contro “soltanto” il 61 per cento governativo: un miracolo. Dovuto alla gracilità delle maggioranze di sostegno all’Esecutivo. Perché, per paradosso, il Parlamento torna a contare qualcosa di più quando i numeri del governo sono instabili. Cosa non auspicabile, ovviamente. Ma così va.

Un futuro diverso per il Parlamento? Se ne può ragionare, spingendo il pedale del controllo sul governo. Ma occorrerebbe una riforma costituzionale condivisa. E saremmo di nuovo a uno.