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Ci stanno dentro un mucchio di cose diverse. Ma l’antropologia, la sociologia, la criminologia, la letteratura, la psicologia - ciascuna per la propria parte - non fanno altro che restituirci un’immagine imperfetta di quel cosmo apparentemente noto, continuamente esplorato e anche ampiamente narrato che è la mafia. Da decenni relazioni, libri, sentenze, articoli, pellicole riempiono librerie intere, eppure tutto questo sapere - dall’ondivaga e incerta qualità - non è riuscito a generare punti condivisi, opinioni accettate, posizioni unanimi negli osservatori più attenti.
E’ vero che, da qualche tempo, di mafia si parla sempre meno e questo, lo diciamo subito, in fondo è un bene. Dopo l’abbuffata mediatica degli ultimi tempi, dopo libri di cassetta frutto di sospette premonizioni su indagini e arresti, dopo serie televisive ampiamente romanzate, dopo carriere discutibilmente lucrate, il chiacchiericcio mafiologico sembra tacere incapace com’è di trovare nuove storie da narrare, nuove gesta da mitizzare.
In questo silenzio il lavoro dei giudici ha però continuato a dipanare matasse e ad affrontare vicende, ponendosi – nella ritrovata continenza mediatica – quesiti importanti e cercando soluzioni che per troppo tempo erano state rimandate. Questa volta è toccato alle Sezioni unite della Cassazione dar risposta a una domanda che a lungo era rimasta latente; forse perché per troppe volte il rumore assordante delle semplificazioni e delle congetture era di ostacolo a una visione laica, moderna, lucida della criminalità mafiosa. Ci si chiedeva da anni ormai, e da oltre un decennio in modo più assillante, se a fondare una condanna per mafia fosse sufficiente sorprendere taluno a recitare giaculatorie e giuramenti, a salmodiare su “Osso, Mastrosso e Carcagnosso”, a discettare di pungiute e di pungiuti. La mainstream giudiziale e le connesse salmerie giornalistiche erano irremovibili sul punto: certo che basta, si ripeteva; l’affiliazione, la ritualità, i santini bruciati, le invocazioni pagane alla divinità sono la sostanza stessa della mafia, sono le stimmate del mafioso che – assoggettandosi a quegli esorcismi – scaccia da sé ogni bene e vende la propria anima al male. Nel cuore di questa visione della mafia e dei mafiosi stavano cose importanti. C’erano Il Padrino di Puzo insieme con Il giorno della civetta di Sciascia solo per citare le opere più prestigiose e autorevoli che hanno ampiamente orientato la percezione collettiva del fenomeno mafioso e della personalità dei suoi adepti. La mafia è stata per decenni ostinatamente costretta negli argini di una sorta di sacerdozio malefico in cui i delitti affondavano le proprie radici in personalità ammaliate da riti antichi che gratificavano e, al tempo stesso, rendevano comprensibile il male più efferato.
La parodia degli uomini d’onore intesa come selezione eugenetica di una razza superiore di criminali che - depurato il delitto della sua quotidiana quanta banale contingenza - lo traducevano come parte di una trama di potere più ampia e misteriosa. Quanto di attuale ci sia in questa visione è un altro paio di maniche. Quanto questa impostazione antropologica abbia ispirato indagini, sentenze e condanne è un’altra cosa ancora. Negli anni strumenti d’indagine sempre più sofisticati e pervasivi hanno consentito di documentare, filmare, ascoltare i riti del paganesimo mafioso e hanno concluso che questo fosse sufficiente, che la sola condivisione di questo pantheon ideale popolato di idolatrie pagane potesse bastare per una condanna.
Ora la Cassazione ha posto un punto fermo. Le motivazioni più complete arriveranno, ma la prima informazione provvisoria rilasciata da piazza Cavour rende chiaro che la sola affiliazione, la sola evocazione dei demoni mafiosi non basta a condannare se non è accompagnata dalla concreta ed effettiva messa a disposizione della propria opera per conseguire i fini dell’associazione. Si può essere mafiosi “dentro”, nel circuito interiore delle proprie convinzioni, della propria arretratezza culturale e delle proprie aspirazioni, si possano idolatrare gli uomini d’onore e si può anche aspirare a emularli, ma tutto questo non basta per incorrere nel carcere. E’ una rivoluzione. Forse la più importante da quando, nel 1982, il reato di associazione mafiosa trovò ospitalità nella cittadella codicistica. In quel recinto di norme la mafia, il suo carico di semitoni, di sfumature, di ambiguità persino caratteriali entrarono portandosi dietro commissioni parlamentari, libri, cinema, serie televisive, Joe Petrosino e don Mariano Arena, un cosmo complesso, una filigrana sconnessa in cui cosmologie letterarie e processi penali, in gran parte falliti, nella Sicilia degli anni ’ 60 delineavano il mito dell’invincibilità e descrivevano una razza di uomini geneticamente vocati al male. In quella epifania del delitto, in parte reale e in parte immaginifica per opera di un’ineguagliabile letteratura, l’affiliazione era decisiva poiché era la prova stessa di quella scelta irreversibile in favore della violenza e della sopraffazione.
Ora la Cassazione pone un argine a questa impostazione che non solo ha confuso (e non sempre in buona fede) un fossile antropologico con una effettiva realtà criminologica, ma che rischiava di concedere spazio a un diritto del foro interiore, a una diagnostica della morale priva dei requisiti di concretezza e di offensività che devono contraddistinguere ogni delitto. Una visione arretrata, colpevolmente arretrata della mafia e della sua modernità che veniva annacquata da esibizionismi rituali, utili per le conferenze stampa e per vendere libri, ma inidonea a rincorrere la vera e più pericolosa evoluzione delle consorterie, laicizzate dalla politica e dal denaro e spogliate di orpelli sacramentali nelle sue propaggini più temibili.