«Una persona violenta non può essere un buon genitore, non può svolgere il ruolo educativo di guida autorevole nei confronti del figlio, e il principio di bigenitorialità deve cedere rispetto al superiore interesse del minore». Ne è convinta Filomena Albano, già Presidente della Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, oggi giudice presso il Tribunale di Roma, sezione famiglia e minori. Con lei analizziamo i dati della relazione sulla “vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l'affidamento e la responsabilità genitoriale”, presentato venerdì scorso dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, presieduta da Valeria Valente.

Il rapporto indaga questo fenomeno “invisibile”, analizzando e quantificando per la prima volta in maniera scientifica i percorsi di violenza nelle aule di tribunale, in ambito civile. Ciò che ne emerge è che la violenza sostanzialmente non viene compresa e riconosciuta. La sua esperienza conferma questo quadro?

La mia esperienza sia come Giudice della famiglia e dei minori sia, in precedenza, come Presidente della Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, mi dice che i procedimenti di affidamento dei figli, in cui sono allegati fatti di violenza, richiedono una marcia in più di tutti - giudici, avvocati, consulenti tecnici, responsabili dei servizi - e una corsia preferenziale nella trattazione. Altrimenti c’è il rischio che la violenza sia invisibile, sia confusa con il conflitto familiare, e che, con il passare del tempo, la ricostruzione dei fatti diventi sempre più complessa. Il Giudice, quando vi sono allegazioni di violenza, deve procedere ad accertare i fatti, senza attendere l’esito del giudizio penale, che può intervenire anche dopo anni, perché in presenza di bambini e ragazzi occorrono decisioni rapide a loro tutela. La relazione della Commissione ha raccolto e analizzato dati del 2017; in questi ultimi 5 anni registro una progressiva maggiore attenzione al tema della violenza domestica e una aumentata consapevolezza del fatto che una persona violenta non può contemporaneamente essere considerato un buon genitore.

Vediamo i dati nel dettaglio. Secondo il rapporto, in circa un terzo dei casi analizzati sono presenti allegazioni di violenza. Ma nelle cause di separazione con affido dei figli, nel 96% dei casi i tribunali ordinari non acquisiscono gli atti relativi. Perché?

Perché il coordinamento tra penale e civile non sempre funziona, perché il grande numero di procedimenti in materia di affidamento dei figli rende difficile la necessaria trattazione tempestiva di quelli di violenza domestica, perché l’altra parte del processo quasi sempre contesta i fatti. E invece il Giudice civile deve non solo acquisire gli atti, ma anche procedere direttamente ad accertare i fatti, attraverso informatori, l’ascolto del minore, il libero interrogatorio delle parti, l’esame dei referti medici, delle fotografie, senza attendere l’esito del penale, che può intervenire anche dopo anni, mentre nei procedimenti di affidamento dei figli il tempo è importante.

Sarebbe necessario, dunque, un maggiore coordinamento tra il penale e il civile?

Il coordinamento deve essere migliorato. In diversi uffici giudiziari sono nati protocolli che prevedono scambi di informazioni e trasmissione di provvedimenti tra procura e giudice civile e tra giudici minorili e giudici civili, ma rimettersi alle buone prassi degli uffici non è sufficiente. Occorre un sistema informatico integrato che consenta al giudice civile di conoscere se a carico di un genitore che chiede l’affido condiviso del figlio vi sia un procedimento penale pendente per maltrattamenti in famiglia, accedere agli atti ostensibili, anche per evitare inutili duplicazioni di accertamenti, con perdita di tempo e di risorse e sofferenza per le vittime, sentite più volte nelle aule di giustizia.

Spesso la violenza non viene neanche nominata nei processi, o viene derubricata a “conflitto familiare”. Un riflesso culturale che ha ricadute giuridiche?

Il conflitto va distinto dalla violenza, ma la capacità di distinguere richiede competenze e esperienza, fin dalla introduzione dei giudizi, negli atti introduttivi da parte degli avvocati. Occorre sottolineare con forza che la violenza assistita è una grave forma di maltrattamento ai danni dei figli e impedisce l’esercizio condiviso della genitorialità.

Il principio di bigenitorialità è considerato prioritario, anche quando c’è violenza. Ma secondo le ultime pronunce della Cassazione dovrebbe prevalere il superiore interesse del minore.

Una persona violenta non può essere un buon genitore, non può svolgere il ruolo educativo di guida autorevole nei confronti del figlio e il principio di bigenitorialità deve cedere rispetto al superiore interesse del minore che, in ogni bilanciamento di interessi, va riconosciuto preminente, come ci ricorda l’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, le norme costituzionali e sovranazionali. Il diritto alla bigenitorialità – che è un diritto del figlio - opera in presenza di genitori che hanno idonee capacità genitoriali.

L’ascolto del minore soggetto dell’affido viene disposto raramente. Perché?

Sbagliato. L’ascolto illumina il Giudice perché consente di fotografare dalla viva voce del minore la situazione familiare e risponde a un diritto dei bambini e dei ragazzi, che non devono essere invisibili nelle aule giudiziarie. Devono essere indicati con il loro nome, ricordando che non si tratta di “minori” ma di persone di minore età, titolari di diritti. Ormai peraltro il legislatore ha reso obbligatorio l’ascolto dei minori ultra dodicenni (art. 336 bis codice civile).

Nelle consulenze tecniche le donne sono spesso definite “alienate, simbiotiche, fragili”. E a questo giudizio consegue una scelta drammatica: denunciare, con il rischio di vedersi allontanare i figli, o sopportare.

Prima delle valutazioni psicologiche, affidate alle CTU, occorre che il Giudice esamini i fatti, anche avvalendosi dei suoi poteri di ufficio, a tutela dei figli minori, e lo faccia con tempestività, pur con le difficoltà derivanti dal numero dei procedimenti, perché la vittima deve sentire che le istituzioni sono dalla sua parte e che denunciare, far emergere la violenza, parlarne, è la scelta vincente, per sé stessa e come modello educativo per i figli.

Il giudice può delegare la comprensione di una vicenda alla consulenza tecnica. Ma questi professionisti possono offrire un punto di vista parziale?

Si tratta di profili distinti. Il consulente tecnico, nei giudizi di affidamento dei figli, ha il compito di valutare, nei suoi risvolti psicologici, le competenze genitoriali, ma il compito di accertare la sussistenza dei fatti di violenza, allegati negli atti, è un compito del Giudice, e non può essere ovviamente delegato.

Veniamo al tema della formazione e della specializzazione di tutti gli operatori della giustizia. A che punto siamo?

Sono positiva. Dal 2017 ad oggi vi è maggiore consapevolezza in ordine al tema della violenza, grazie alle iniziative in campo, ai corsi di formazione della Scuola Superiore della magistratura, dell’avvocatura, alle tante iniziative del privato sociale e delle associazioni che lavorano dalla parte delle vittime, all'opera di sensibilizzazione portata avanti dalla Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, alle iniziative degli uffici giudiziari che hanno individuato buone prassi per migliorare la comunicazione tra penale e civile e tra famiglia e minori tentando di superare la frammentarietà e duplicazione degli interventi.

Cultura, buone prassi, buone norme. Cosa serve di più alla giustizia?

Serve un cambio di passo culturale che parta dai più piccoli, dalle scuole, la cultura del rispetto nei confronti dell’altro deve essere la cultura dominante. La giustizia interviene sempre in un secondo momento, riflette i cambiamenti culturali, intercetta le spinte riformatrici che impongono un cambio di passo. È quello che si sta verificando adesso. È il momento della speranza e del cambiamento.