Tutti considerano i politici furbi. Ma in realtà si rivelano ingenui come bambini a Natale quando scartano i sondaggi.

Con la faccia ansiosa e gli occhi entusiasti li compulsano di continuo, salvo poi fare spallucce e dire che non li guardano mai.

Non si accorgono che a volte dentro il pacchetto viene riciclata merce di scarto o avanzi di bottega, anche quando ne hanno avuto esperienza diretta. Specie in questa campagna elettorale fatta sulle spiagge sotto l’ombrellone, tanto bislacca quanto fuori stagione.

Mi spiego: i sondaggi fatti al momento del voto ( i famosi exit poll) sono ormai da anni in Italia del tutto inattendibili.

Siamo un popolo di spudorati mentitori che nel segreto dell’urna fa quello che non si dice ( del resto l’educazione cattolica a qualcosa serve).

L’abilità mercantile dei sondaggisti a non chiamare con il loro nome italiano le intenzioni di voto al seggio, ma travestirle di un nome inglese consente loro di farsi lautamente pagare per fare rilevazioni a chilometri dai seggi e a mesi dalle elezioni e farli passare per oracoli.

I politici se li fanno comprare e ci giocano felici, ignari del fatto che sono attendibili come i pronostici sulle partite di calcio perché ognuno di noi è disposto a pagare per esser al centro dell’attenzione altrui, soprattutto se frequenta il Parlamento.

Ma chi risponde al sondaggio in quel momento fa altro e ha la mente altrove. L’ho sperimentato io stesso : interpellato su quale radio ascoltassi, di fronte a una serie di domande precise e ad un incalzante diluvio di nomi di emittenti, ho confessato di ascoltarle tutte e sempre, anche se non è vero ( o lo è in minima parte).

Dovevo però compiacere la signorina gentile che mi aveva chiamato e soprattutto spicciarmi a finire.

Del resto succede lo stesso ai testimoni nei processi. In quelli civili è una pacchia perché basta rispondere «Sì, è vero» al giudice per sbrigare il fastidio di esser chiamati in Tribunale e avere perso la mattinata.

In quelli penali è più difficile, perché se il Pubblico ministero, il difensore o come spesso capita anche il giudice, cominciano a scavare, il rischio di contraddirsi è notevole. A quel punto il testimone insegue un obiettivo preciso: esser coerente con quello che ha detto prima ( «Se dico che mi ero sbagliato, mi prendono per uno spergiuro e mi mettono in galera» ), e soprattutto finire alla svelta il tormento ( «Avvocato, glielo ho già detto prima, mi pare che avesse la maglietta gialla chi ha sparato» ).

L’interrogato è consapevole che la maglietta potesse esser anche verdolina, ma si rende conto di averla definita giallina anni prima alla polizia e non vuole smentirsi e fare brutta figura, anche perché poi, pensa, le sfumature di colore non sono cose importanti; sono una fissazione degli avvocati che, si sa, spaccano il capello in quattro.

Così la gente che stava facendo altro, dice di votare chi più spesso vede in TV, chi gli rimane in quel momento più impresso e magari chi in quel momento conta e può piazzare sua nipote o sua cugina al concorso pubblico prossimo venturo.

Poi, chiusa la conversazione, torna alla propria vita e quando e se andrà a votare avrà visto mille altri programmi televisivi, sperato in cento altri concorsi e poi cinque minuti dopo aver votato non si ricorderà su quale simbolo ha fatto la croce e comunque non ci farà caso più di tanto.

Tantissimi anni fa feci l’atroce scoperta che un cugino non mi aveva votato alle elezioni comunali del mio paesello ( il gioco era facile, i votanti pochi e controllatissimi).

Glielo rinfacciai e mi rispose serafico: «Ho votato il partito che sulla scheda era accanto al tuo, non stare a sottilizzare».