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«Occorre una forte motivazione della magistratura per raggiungere gli obiettivi che questa riforma civile si prefigge. Temo, però, che si porterà un modello processuale che non sarà in grado di soddisfare le richieste provenienti dall’Europa». Alessandro Patelli, coordinatore della Commissione diritto civile e procedura civile del Consiglio nazionale forense, interviene nel dibattito che continua ad animare l’avvocatura, l’accademia e la magistratura, dopo l’approvazione al Senato, qualche settimana fa, della riforma del processo civile.
Avvocato Patelli, da diverse parti si tessono le lodi della recente riforma civile. È un entusiasmo giustificato?
Ci sono degli aspetti sicuramente positivi. La valutazione complessiva non è in linea con le aspettative dell’avvocatura perché presenta una serie di aree di criticità sulle quali, non solo l’avvocatura, ma anche la magistratura e l’accademia, si sono espresse. Si ripone eccessiva fiducia in un intervento puramente processuale anziché strutturale- sistematico.
Vi è poi una impronta dirigista del processo civile a discapito del principio dispositivo, che dovrebbe essere ispiratore del processo civile e che è stato compresso. Il processo civile dovrebbe essere uno strumento a disposizione delle parti. In realtà con questa riforma viene data una forte compressione dei diritti delle parti e dei diritti di difesa. Si valorizza di più l’aspetto di rito con le preclusioni e le decadenze. Si punta molto sulla nuova strutturazione del processo civile e sull’ufficio del processo. Temo che l’obiettivo dichiarato, la contrazione del quaranta per cento dei tempi processuali, possa non essere raggiunto Alcuni esponenti dell’accademia hanno di recente parlato di un cambiamento culturale connesso a questa riforma. È proprio così?
Il cambiamento culturale è auspicabile. Si deve valorizzare la possibilità che si definiscano i conflitti extragiudiziali attraverso gli strumenti di Adr. A me sembra che il primo cambiamento culturale necessario sia quello da parte dell’ordinamento di concepire lo strumento processuale a disposizione del cittadino e non uno strumento che pone ostacoli all’accesso alla giurisdizione, che pone una serie di trabocchetti, di tagliole, di preclusioni che ostacolano l’esercizio del diritto in contendere. Il cambiamento culturale deve valorizzare il ruolo di tutti, del magistrato, dell’avvocato e della parte. Deve essere rispettoso del diritto di azione, del diritto di difesa, del contraddittorio e, insisto su questo punto, del principio dispositivo per il quale lo strumento processuale è a disposizione delle parti. Non deve essere una camicia di forza nella quale le stesse parti non riescono a dispiegare le loro ragioni e difese.
Nella riforma grandi attese per velocizzare il processo civile si attribuiscono alla prima udienza. È questo lo snodo più importante?
Attualmente il collo di bottiglia è rappresentato dalla fase decisoria. L’intento di valorizzare la prima udienza può essere anche un fine utilmente perseguibile. Ma non ci sembra che nella condizione attuale la nuova impostazione possa raggiungere gli obiettivi prefissati. La prima udienza rischia di essere fissata a distanza notevole rispetto alla notificazione dell’atto di citazione. E ciò per l’esigenza di inserire tra la notificazione dell’atto di citazione e la prima udienza non solo la costituzione del convenuto, ma anche le tre memorie che sono destinate alla compiuta formulazione del thema decidendum e del thema probandum.
Abbiamo un arretramento delle preclusioni al momento anteriore alla prima udienza con il fine di consentire al giudice di avere un panorama completo della controversia ma pure con il rischio che questa prima udienza sia molto impegnativa e crei un ingorgo.
L’averla appesantita con gli elementi appena richiamati implica un rischio di rinvio. Il giudice dovrà fare i conti con il suo ruolo. Con l’attuale carico di lavoro è difficile prevedere che riesca a sentire liberamente le parti, a promuovere il tentativo di conciliazione in prima udienza senza che ci sia l’esigenza da parte sua di differire e scaglionare i processi in modo da avere il tempo necessario da dedicare a ciascuno di essi. Altro aspetto fondamentale è quello della leva motivazionale che deve riguardare i magistrati.
L’ufficio per il processo è caricato nel contesto riformato da eccessive aspettative?
Ho notato che si punta molto su questo istituto, già noto all’ordinamento e che viene rivitalizzato. L’ufficio per il processo porterà qualche utilità. Francamente mi sembra sopravvalutato in termini di capacità di incidere sulla riduzione dell’arretrato e di imprimere celerità al processo. C’è anche da dire che le regole di ingaggio sono abbastanza opinabili con il rischio di creare un nuovo precariato per i contratti a termine previsti per il nuovo personale. Al termine del triennio le persone impiegate nell’ufficio per il processo o verranno stabilizzate oppure verranno lasciate al loro destino. Manca, inoltre, a mio avviso la previsione di una adeguata formazione.
L’avvocatura in questa fase, dopo l’approvazione della riforma dello scorso 21 settembre, prenderà alcune iniziative?
Continueremo a seguire l’iter legislativo con attenzione per portare eventuali correttivi. Il timore è che le esigenze e i tempi connessi al Recovery Plan porteranno l’altro ramo del Parlamento ad una lettura non particolarmente riformatrice del testo proveniente dal Senato. Temo che per non avere rischi di rinvii al Senato il testo che uscirà dalla Camera sarà lo stesso. I vari passaggi consumatisi hanno generato una sorta di corto circuito istituzionale sul quale occorre riflettere. Partiamo dal disegno di legge delega. L’iniziativa è governativa e il Governo è il legislatore delegato, propone i criteri ai quali il legislatore delegato, vale a dire sé stesso, deve esercitare la delega. Occorre interrogarsi sul ruolo del Parlamento, dove sarebbe stato auspicabile un dibattito ampio. Il Parlamento si è assunto una grande responsabilità.