«Se prima l'Afghanistan viveva soprattutto grazie ai contributi dei Paesi donatori, in mancanza di questi, nel giro di poco tempo diventerà un Paese al collasso. Se ci aggiungiamo il cambiamento climatico, la siccità e alle porte quello che è previsto come uno degli inverni più rigidi degli ultimi dieci anni, si può senz'altro parlare di un disastro annunciato». Giornalista, blogger, destinataria di numerosi riconoscimenti – fra cui il premio Luchetta, Antonio Russo, Italian Women in The World, il premio Maria Grazia Cutuli e altri –, Barbara Schiavulli testimonia una profonda conoscenza – come corrispondente di guerra – della storia del Medio Oriente, dell'Africa e dell'Asia centrale. E l'Afghanistan occupa un posto di rilievo.

Quali impressioni le ha suscitato la sua recente permanenza in Afghanistan?

Seguo l'Afghanistan da vent'anni. Non mi aspettavo tuttavia che si sarebbe consumata così rapidamente questa catastrofe umanitaria, economica e civile. Ci sarei dovuta tornare in occasione dell' 11 settembre, data simbolica del ritiro degli americani, ma la situazione è precipitata a metà agosto: i talebani sono arrivati all'aeroporto di Kabul e tutti i voli sono stati sospesi. Ho lavorato, insieme a Nove onlus e ad altri colleghi, per favorire l'evacuazione di persone dal territorio, ben conscia del fatto che non saremmo mai riusciti a tirarne fuori abbastanza. Ho trovato un Paese spaventato, a cui avevano imposto nuove, indesiderate regole, ma che non possiede più la forza, dopob46 anni di guerra, di ribellarsi. Ho cercato di raccontare la cancellazione sistematica della società civile e l’indigenza dilagante: il 97% degli afgani si trova sotto la soglia della povertà e si rischia che l'anno prossimo muoia un milione di bambini. Il World Food Program dell’Onu, insieme a poche altre associazioni ci sta lavorando, ma c'è un problema di liquidità: le banche e i confini sono chiusi, non c'è modo di far passare fondi se non attraverso un governo regolarmente riconosciuto, ma il governo talebano, oggi, non lo è.

Durante una recente manifestazione, Husna Saddat, esponente del «movimento spontaneo delle donne attiviste in Afghanistan», ha scandito davanti a un reporter: «Perché il mondo ci guarda morire in silenzio?». Come le appare la reazione internazionale?

Tutti hanno assunto posizioni nette a favore delle donne, ma tra il dire e il fare, poi, c'è di mezzo l'intero Afghanistan. Pensiamo all'aspetto educativo: oltre i dodici anni è vietato alle bambine proseguire gli studi, cosa inaudita in qualunque altra parte del mondo, come è inaudito che siano vietate la musica, la pittura e altre arti. Anche se orribile a dirsi, però, la questione dei diritti umani potrebbe costituire una condizione sulla quale trattare. L'Europa potrebbe richiedere il rispetto dei diritti umani in cambio di ciò di cui hanno maggior bisogno i talebani, ovvero il denaro. Il riconoscimento, a mio avviso, non si può concedere: quello dei talebani non è mai stato un movimento pacifico. Quando, durante un'intervista, ho chiesto al vicedirettore della Commissione Cultura perché si opponessero all’istruzione delle ragazze, mi ha risposto: «Quante storie fate voi occidentali! Guardi dove siamo arrivati noi senza università». Per loro la musica procura svenimenti e per questo è stata vietata! Mancano le basi per un dialogo. Le donne che manifestano oggi sono poche sia perché hanno paura, sia perché sanno che scendere in piazza in questo momento non garantisce cambiamenti sostanziali. Ma si stanno già muovendo in maniera sotterranea: non accetteranno mai di sottostare a questo regime.

Recentemente, si è diffusa la notizia della decapitazione di una pallavolista hazara, Mahjabin Hakimi. Come commenta?

Come per qualsiasi notizia, per prima cosa cerco di verificarla e, se non sono sicura della sua fondatezza, non la pubblico. Da noi, su Radio Bullets, non è uscita, come anche sui grandi giornali e media internazionali occidentali – BBC, Washington Post, The New York Post, ecc... È stata diffusa solo su alcune testate – di cui una, in particolare, iraniana –, per essere poi ripresa dalla stampa indiana, mentre qualcuno in Italia l'ha pubblicata probabilmente senza prima controllarla. C'è poca cura verso il lettore, mentre in realtà il giornalismo dovrebbe costituire un servizio pubblico.

Ha avuto modo di verificarne la mancata correttezza?

Sì, mi è bastato contattare la famiglia.

Cosa ostacola, in Afghanistan, l'emancipazione femminile?

Direi il diffuso conservatorismo e tradizioni difficili da spezzare. Stava avendo luogo un percorso per emancipare la donna attraverso la cultura e l'istruzione: adesso è tutto finito. Il problema sarà quando resteranno i talebani al potere e se, durante questo periodo, il loro oscurantismo intaccherà le giovani menti dei ragazzi e delle ragazze.