Intervista a Eugenio Raul Zaffaroni, professore emerito di diritto penale e criminologia all’Università di Buenos Aires, già giudice presso la Corte suprema argentina e la Corte interamericana dei Diritti umani.

Professore, nella sua ultima lectio magistralis in Italia ha menzionato che la pena deve essere vista non solo come un atto punitivo, ma come un possibile strumento di trasformazione dell’individuo. Potrebbe spiegare come si inserisce il concetto di “dialogo interno ed esterno all’io” nel sistema penale attuale?

Nell’esperienza latinoamericana osservo che la popolazione carceraria è composta quasi interamente da uomini, solo il 5% sono donne, il che conferma indirettamente il modello patriarcale. Di questi uomini, c’è una minoranza molto ridotta di quelli che potremmo chiamare “criminali”, cioè assassini, stupratori, eccetera, alcuni più vicini al manicomio che alla prigione. Il restante 90%, ovvero la grande maggioranza, è condannato o processato per reati di sopravvivenza, contro la proprietà, anche senza violenza, o per spaccio al dettaglio di sostanze tossiche proibite. Più della metà non è condannata, ma in custodia cautelare. Sono i cosiddetti “detenuti senza condanna”.

Nelle condizioni delle nostre carceri sovraffollate e in alcune controllate internamente da bande di detenuti della criminalità organizzata, il cambiamento di soggettività che ciò produce è esattamente l’opposto di quello postulato dalle leggi di esecuzione penale che, in questo senso, sembrano deliranti: il ragazzo entra dicendo “ho rubato” ed esce dicendo “sono un ladro” e con una stigmatizzazione che implica un’incapacità lavorativa. La selettività del potere punitivo fa sì che la polizia faccia la cosa più facile, ovvero mettere in prigione questi giovani stereotipati dei quartieri marginali, senza istruzione e senza specializzazione lavorativa, e non altri che commettono reati molto più gravi.

Nessuno di loro può commettere una frode fiscale astronomica tramite triangolazione con Hong Kong. In generale, possiamo dire che, sebbene abbiano commesso dei reati, non sono in carcere tanto per i reati commessi, quanto per la loro vulnerabilità al potere poliziesco e repressivo, perché sono portatori di stereotipi che assomigliano a uniformi da ladruncoli o simili. Cosa si può fare? Offrire loro la possibilità di aumentare il loro livello di invulnerabilità al potere repressivo. È ovvio che se uno di loro esce di prigione come tecnico elettronico avrà una percezione di sé diversa e, quindi, sarà più invulnerabile al potere penale.

Nel contesto della sua riflessione sul diritto positivo e sulla giurisprudenza come atto di governo, come vede l’evoluzione del concetto di pena in un sistema giuridico sempre più globalizzato?

Non smette di sorprendermi che i politici continuino a inventare scopi e funzioni della pena senza vedere quelli che realmente svolge, ovvero reprimere i più vulnerabili in ogni società, secondo i peggiori pregiudizi: negli Stati Uniti gli afroamericani costituiscono oltre il 50% dei detenuti, in America Latina sono i ricchi di melanina, in Europa gli extracomunitari, in Cina non saprei. È un fenomeno strutturale, non accidentale, le forze dell’ordine fanno la cosa più facile, non sto teorizzando sulla base delle lotte di classe o cose simili, rispetto le riflessioni dei marxisti, ma questo accade in tutto il mondo e persino mia nonna lo sa.

In questo modo, e seguendo ciò che disse nel XIX secolo un giurista brasiliano, Tobías Barreto, la pena e la guerra sono due fenomeni di potere politico: chi ha potere reprime penalmente e fa le guerre. Per questo motivo, ritengo che gli internazionalisti siano stati molto più umili dei penalisti e abbiano smesso di discutere se la guerra sia giusta o ingiusta, costruendo invece il diritto internazionale umanitario, che si occupa di evitare gli aspetti più crudeli delle guerre e la cui agenzia esecutiva è la Croce Rossa internazionale.

È ora che noi penalisti facciamo lo stesso, perché la pena ha così tante funzioni, in quanto fatto di potere politico, che nessuno le conosce tutte, ma ciò che sappiamo con certezza è che, se non limitiamo il potere penale, esso trabocca come puro potere di polizia e finiamo nel genocidio, attraverso le Ss, la Gestapo, il Kgb o gli eserciti degradati a poliziotti. Il nostro compito non è quello di legittimare il potere punitivo, ma di contenerlo razionalmente.

Riguardo all’attualità, come potrebbe il sistema penale affrontare la grave situazione delle carceri sovraffollate e delle condizioni di detenzione? Amnistia e/ o indulto rappresentano valide soluzioni?

Lasciando da parte la minoranza “patibolare”, il resto è facile da risolvere. Innanzitutto, non si tratta di distribuire allegramente la custodia cautelare, perché tutte le detenzioni preventivi sono deterioranti e generano recidivi e recidivi. I media devono smettere di minacciare i giudici. Se un giudice rilascia un piccolo truffatore e questi arriva a casa e uccide la moglie, i media accusano il giudice di essere responsabile, no? Ognuno si assuma le proprie responsabilità, i media le loro e i giudici le loro.

Le carceri non possono essere piene di piccoli ladri invece che di grandi truffatori che nascondono i loro profitti astronomici in paradisi fiscali che nessuno elimina e che tutti sappiamo dove si trovano. Ogni Stato ha carceri con una certa capienza. Ebbene, non si può superare tale capienza con ladruncoli di poco conto.

Non sono necessari indulti o amnistie, ma sostituire la privazione della libertà con misure non privative nei casi di minore aggressività. Tuttavia, ogni Stato non può avere più detenuti di quelli che può ospitare in condizioni minime di sicurezza della vita, integrità fisica e dignità umana.

In che misura ritiene che la giustizia riparativa possa essere efficace nella riduzione della recidiva? Quali sono i limiti di questa forma di giustizia e come può essere integrata con il sistema penale tradizionale?

La nostra civiltà ha riscoperto l’acqua calda: la riparazione era il metodo normale per le infrazioni minori in America prima dell’arrivo di Colombo e lo è ancora oggi in molti paesi africani, dove è il consiglio degli anziani a decidere. Si tratta di quella che oggi viene chiamata “deviazione dal processo penale”, si passa a una forma reale di risoluzione del conflitto, cioè si toglie il conflitto dal penale e lo si trasferisce alla forma di risoluzione del diritto privato. Se si vuole davvero reintegrare la vittima nella risoluzione del conflitto, e non usarla semplicemente per promuovere odio e vendetta, questa è la strada da seguire, cioè tornare all’antico.

In Italia il dibattito sulla separazione delle carriere tra magistratura e politica è molto acceso. Alcuni temono che il pm finisca sotto il controllo della politica.

Bisogna evitare che qualsiasi organo si sottometta al governo in carica, ma all’interno dello stesso organo nessuno potrà evitare le opinioni politiche, perché tutti gli esseri umani hanno delle ideologie.