Il 13 marzo 2002 veniva ucciso a Ramallah (Cisgiordania) Ascanio Raffaele Ciriello, fotoreporter e medico chirurgo. Ciriello si trovava in Medio Oriente con un accredito del Corriere della Sera per seguire la seconda Intifada. Palestinesi e soldati israeliani si scontravano già da qualche settimana. Il fotoreporter, originario della Basilicata, era in piazza Dawar Al Manar con il giornalista Rai Amedeo Ricucci e l’operatore Norberto Sanna. Venne falciato dalla raffica di un tank israeliano nel tentativo di riprendere alcuni scontri in quel momento in corso. Vent’anni fa il direttore del Corriere della Sera era Ferruccio de Bortoli. Domenica scorsa, nello stesso giorno dell’anniversario della morte di Ciriello, è stato ucciso il giornalista statunitense Brent Renaud.

Direttore, qual è il suo ricordo del 13 marzo 2002?

Non ho conosciuto personalmente Raffaele Ciriello. Collaborava al Corriere della Sera ed era autorizzato dalla redazione Esteri a svolgere una serie di servizi. Ne apprezzavo comunque l’opera, particolarmente significativa e frutto anche di un coraggio personale di un fotografo freelance, che, tra l’altro, aveva una sua professione. Ciriello si era dato alla fotografia con passione, fino a farla diventare il suo lavoro principale. Era una persona di cui ho potuto apprezzare ancora di più, soltanto dopo la sua scomparsa, un percorso da freelance, fatto di coraggio, competenza e voglia di essere sui fatti ed essere testimone dei fatti. Se uno poi ci pensa, si tratta della molla principale dell’attività giornalistica. Il cuore della visione della realtà che può scaturire da un giornalista professionista. Raffaele Ciriello era più professionista di molti di noi, pur avendo una professione profondamente diversa.

In redazione, dopo la morte di Ciriello, vi siete posti?

La sua uccisione ha rappresentato un momento di particolare tristezza nel quale ci domandammo se avessi fatto bene ad autorizzarlo e a concedergli l’accredito del Corriere, a essere più prudenti per accertarci delle condizioni in cui avrebbe lavorato. Questi, purtroppo, sono i pensieri che assalgono un direttore quando si trova di fronte ad eventi tristi. La morte di Ciriello seguiva tra l’altro la scomparsa di Maria Grazia Cutuli, avvenuta qualche mese prima. Questo ci poneva in una situazione di particolare ansia, oltre che di partecipazione al dolore della famiglia, della moglie.

Ho questi ricordi particolarmente tristi, quando noi abbiamo accompagnato quello che era un nostro collega senza che molti di noi sapessero di averlo come collega. Era la condizione particolare dei freelance. Dopo la morte di Raffaele, ci fu una discussione molto ampia suscitata dai suoi colleghi, che lamentavano l’assoluta precarietà e anche il fatto di come i giornali nella loro convulsa organizzazione non dedicassero attenzione a persone molto capaci. Lo stiamo vedendo anche in questi giorni, in Ucraina. A questo proposito mi viene in mente un altro bravissimo fotografo, Andrea Rocchelli, morto nel Donbass nel 2014. Sono tanti i colleghi che hanno pagato un prezzo elevatissimo alla loro passione e al loro compito di documentare correttamente con l’onestà della loro professione gli avvenimenti più luttuosi e le pagine più drammatiche della vita del nostro Paese e dell’umanità.

Lei è stato molto vicino alla famiglia del fotoreporter. Cosa l’ha colpita di più di quei giorni strazianti?

Non dimenticherò mai l’espressione della moglie di Raffaele Ciriello, il suo amore così profondo che si accompagnava anche al dolce rimprovero di aver seguito la sua passione per la fotografia. Dopo la sua uccisione, avemmo moltissimi problemi con il governo israeliano, perché Raffaele fu considerato un caduto in guerra. Fu un momento che aggiunse tristezza e anche un po’ di rabbia. Nel ricordare Raffaele non posso non ricordare la figura del padre, Giuseppe Ciriello.

Vi siete visti anche dopo la morte di Raffaele?

Mi venne a trovare più volte e stabilimmo un rapporto. Ci sentivamo e ci siamo sentiti fino alla sua morte. Il padre di Raffaele non si è mai rassegnato all’idea di non sapere come fosse morto veramente suo figlio, di non aver avuto giustizia, di non aver avuto delle informazioni che riteneva fossero importanti, che quel fotografo freelance fosse considerato come un “danno collaterale”, senza neppure considerarlo nella sua dignità di persona. Io ricordo di aver letto negli occhi del padre lo sgomento, il senso di ingiustizia e di essermi trovato in grandissima difficoltà nella dolorosa impossibilità di dare una risposta ai suoi interrogativi. Non dimenticherò mai il suo sguardo, lo sguardo di un padre affranto dal dolore che voleva capire, ma che ormai era certo che non avrebbe capito fino in fondo le modalità della morte di un figlio. Raffaele voleva essere parte della trincea della vita e di non rassegnarsi a un lavoro più tranquillo, ma evidentemente ai suoi occhi più noioso.

Quanto è cambiato il giornalismo da quel maledetto 13 marzo 2002 fino ad oggi?

C’è di mezzo quasi un’era geologica, nel senso che eravamo ai primordi dei social network. La digitalizzazione della professione era ancora agli albori. Io vedo che, nonostante siano cambiati tanto gli strumenti quanto le modalità delle informazioni, soprattutto attraverso i video e gli strumenti digitali, quella passione di Raffaele Ciriello è ancora viva. Mi riferisco a quella voglia di conoscere, di capire e di partecipare anche al dolore delle persone, di essere dentro, con il cuore, agli avvenimenti che fanno la nostra storia, oltre che con la mente. Questa passione la vedo ancora moltiplicata in tanti colleghi. Sono loro che in questi giorni stanno documentando con coraggio e professionalità i fatti dell’Ucraina. Mi auguro che non rischino la vita e spero che siano sempre molto prudenti. Quando c’è la passione per il proprio lavoro si vuole capire, si vuole essere presenti e guardare con i propri occhi, giudicare e poi raccontare. Il giornalismo è cambiato moltissimo nella tecnologia, attraverso la quale si esprime, ma quella passione, quel fuoco, quella voglia di capire sono anche aumentati. È un messaggio positivo. Dimostra che l’eredità di Maria Grazia Cutuli e Raffaele Ciriello sono in buonissime mani.