È di moda riferirsi alle leggi chiamandole regole. Ma legge e regola non coincidono. La legge è una regola cogente, ha a che fare con giudici e giurisdizione; la regola, no. La maggior parte delle regole non è legge. In verità l’uso della parola “regola” indica che la legge non è ritenuta tale. Nessuno invoca la forza delle regole, bensì della legge. Violare le regole suona meno grave di violare la legge. L’eufemismo insito nello scambio dei termini spiega il successo della sostituzione lessicale.

L’abitudine a violare la legge diventa socialmente più accetta perché viene infranta una regola non meglio specificata, quasi confusa nel vasto mare delle convenzioni civili, dal galateo allo sport. Per i Romani régula significa regolo, riga, squadra, asticella. Ma nel senso di norma giuridica era régula iuris. Per Cicerone Lex est iuris atque iniuriae regula: la legge è la regola del giusto e dell’ingiusto.

Ecco il punto. Tolte dal loro rapporto con il diritto, con la giustizia e l’ingiustizia, le regole perdono la loro anima di ferro e diventano obblighi sociali, impegni della convivenza civile. Chiamare regole le leggi tradisce la predisposizione ad infischiarsene ovvero a pretenderne un’applicazione elastica, in qualche modo contrattata e condivisa, come amano dire. Quanto gl’Italiani tengano in conto le regole può osservarsi, per esempio, nelle partite di calcio, dove i giocatori recriminano e ingiuriano l’arbitro, mentre la folla irride e insulta gli uni e l’altro.

Altre volte mi è capitato di scrivere che l’Italia vive in una permanente condizione di semi legalità, sebbene ami considerarsi Stato di diritto, il quale, di suo, può significare varie cose. In una prima accezione, designa uno Stato in cui esiste un’avanzata civiltà giuridica.

In una seconda accezione, sintetizza ed evidenzia un ordinamento nel quale il complesso delle situazioni giuridiche soggettive, pubbliche e private, attive e passive, risulta da norme obiettivamente stabilite ( certezza del diritto), valide per tutti ( generalità e astrattezza del diritto), emanate da un potere a ciò delegato ( sovranità della legge).

In una terza accezione, può considerarsi quell’ordinamento nel quale si realizza una soddisfacente bilancia dei poteri, per cui “il potere frena il potere e la libertà è salva”.

In nessuna delle tre accezioni il nostro può assimilarsi pienamente all’ideale Stato di diritto. Quanto alla civiltà giuridica, la mancanza di un vero e proprio habeas corpus con la libertà su cauzione, della detenzione separata per gl’incolpati non giudicati, del rimborso totale delle spese di giustizia agli assolti, basta, ancora per esempio, a seminare più di un dubbio.

Quanto alla certezza del diritto, è esperienza comune che regna l’incertezza in quasi tutti i campi giuridici, essendo la legge né generale né astratta né univoca ma troppo spesso un mascheramento di provvedimenti senza rispetto dell’uguaglianza e della coerenza, a tacere della giungla di norme giuridiche non legislative. Quanto alla sovranità della legge, appare evidente che una qualità si è pervertita nel peggior difetto perché con il nome di legge passano comandi e ordini emanati dall’autorità legislativa, anziché norme qualificabili giuridiche in senso stretto. L’equivoco tra i due concetti di legge è «tra le principali cause del declino della libertà, declino cui la teoria giuridica ha contribuito tanto quanto la dottrina politica» ( Hayek).

Nella terza accezione, la Costituzione a molti sembra aver stabilito un appropriato sistema di checks and balances, generalmente tradotto “pesi e contrappesi” ma meglio invece rendere con la formula “controlli e bilanciamenti”, più espressiva del pensiero dei Costituenti americani.

Alcuni sostengono che il sistema italiano sia addirittura troppo imbrigliato dalla bilancia dei poteri. Mentre a me sembra che la separazione delle persone preposte all’esercizio dei poteri costituzionali sia imperfetta. Infatti, specialmente nei rapporti tra politica e magistratura, l’indirizzo costituzionale e legislativo dovrebbe attenersi ad un principio che non mi stanco di ribadire così: non esiste separazione dei poteri senza separazione degli uomini di potere.

E considero l’indispensabile esplicitazione e completamento dell’articolo XVI della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: «Le società nelle quali non è assicurata la garanzia dei diritti né determinata la separazione dei poteri, non possiedono affatto una Costituzione». Non è allora che Il 1789 gl’Italiani lo stanno ancora aspettando?