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Bisognava governare l’emergenza è invece l’emergenza sta governando noi, squassandoci. Bisognava essere pronti ad affrontare un nemico subdolo e multiforme; e invece il nemico prima è stato negato e infine si è fatto esplodere tra di noi come un belluino e distruttivo kamikaze. E’ successo che di fronte al virus, il sistema immunitario del Paese - già fiaccato da decenni di inoculata demagogia, incapacità, populismo - sia andato in pezzi, disarticolandosi. Giustamente il capo dello Stato ha richiamato al dovere di identificarsi nelle istituzioni e obbedire alle indicazioni che da quel presidio provengono. Del resto che altro si può fare? Peccato che quelle stesse istituzioni, salvo appunto il Quirinale, siano progressivamente delegittimate agli occhi dei cittadini. Per troppo tempo, e nel silenzio complice di chi avrebbe dovuto fare argine, il morbo dell’antipolitica ha potuto proliferare e ingrassare. Chiedere a quel morbo di farsi scudo contro la disgregazione della coesione sociale è come chiedere a chi ha fatto l’untore di trovare l’antidoto ai mali che ha sparso. Il richiamo alla fiducia è essenziale. Ma chi la deve gestire deve dimostrare di essere all’altezza della situazione. La politica è stata vilipesa, presa a calci. Il risultato è che il Covid-19 ci è piombato addosso come un colpo di maglio mettendo in risalto quanto siano sfilacciate le strutture portanti del Paese. L’immagine del ponte Morandi che di botto si sfracella indica bene lo stato delle cose. Tuttavia le energie dell’Italia ci sono e debbono essere usate al meglio. Proprio come sta accadendo a Genova. Serve uno sforzo corale che indirizzi verso un identico obiettivo capacità, competenze, spirito di servizio, solidarietà. La nemesi vuole che la politica tanto bistrattata dalla voluttà di sparare sul quartier generale (altrettanto colpevole, per carità) con le pallottole del rancore e nella disaffezione, debba adesso farsi carico della ricostruzione. Ci vuole uno sforzo collettivo. Ai tempi del terrorismo, maggioranza e opposizione cancellarono i confini reciproci in nome di un interesse superiore. Come allora il nemico era tra di noi, al tempo stesso visibile e mimetizzato. Bisogna ritrovare e riannodare i fili di quella unità di intenti. Per riuscirci, è preliminare annichilire l’istinto patologico e nullificante della delegittimazione dell’altro che è stato lo stigma degli ultimi decenni. Non solo è difficile a farsi: speriamo non sia anche impossibile a dirsi.