«Il senso della professionalità, cioè subordinare la propria fetta di potere, piccola o grande che sia, agli scopi dell’ordinamento, dell’istituzione, della propria arte o professione all’interesse pubblico». Queste parole del giornalista Marco Vitale vennero dedicate a Giorgio Ambrosoli all’indomani della sua morte. L’avvocato milanese venne nominato nel 1974 commissario liquidatore della Banca Privata Italiana per far luce sugli interessi torbidi tra politica, alta finanza, massoneria e criminalità organizzata siciliana messi in piedi da Michele Sindona. Giorgio Ambrosoli venne ucciso l’ 11 luglio 1979 sotto la sua abitazione a Milano. A distanza di quarantatré anni il figlio Umberto lo ricorda ancora con emozione.

Avvocato Ambrosoli, la figura di suo padre continua ad essere un punto di riferimento per l’avvocatura. Le doti umani e professionali sono alla base di questa grande considerazione?

Sì e questa cosa fa sicuramente piacere. Sono trascorsi 43 anni dall’uccisione di mio padre. Sotto certi punti di vista è una vita. Gli avvocati sono stati i primi a rendersi conto del significativo lavoro che mio padre stava facendo e della gravità di quello che si verificò. L’Ordine degli avvocati di Milano, per primo, ha voluto prendere una posizione nel 1979, all’indomani dell’assassinio di mio padre. Penso anche all’intitolazione della biblioteca dell’Ordine, nel Tribunale di Milano, molto prima di tutti gli altri riconoscimenti istituzionali. Esiste una ragione di vicinanza anzi di colleganza che porta ad una maggiore attenzione e sensibilità.

Quali insegnamenti ha lasciato all’avvocatura l’insegnamento di Giorgio Ambrosoli?

Fare l’avvocato non significa andare contro chi tutela gli interessi in prospettiva istituzionale. L’avvocato è per definizione al servizio della collettività. Mio padre ha interpretato con naturalezza i principi del nostro codice deontologico. Ricordo pochi giorni dopo l’omicidio di mio padre un articolo sul “Giornale” di Marco Vitale in cui si evidenziava il ruolo del professionista, ovvero colui che subordina tutto sé stesso ai fini della sua professione e agli interessi che è chiamato istituzionalmente a rappresentare. Voglio ricordare, inoltre, che lo stesso Sindona era avvocato. La morte di Giorgio Ambrosoli ha lasciato la testimonianza del fatto che, attraverso la propria professione, si può contribuire a migliorare la condizioni del paese nel quale viviamo, difendendo la propria libertà. Nella nostra quotidianità le insidie possono essere molto meno drammatiche ma non per questo meno insidiose. Sotto certi punti di vista anche la pigrizia diventa un’insidia contro l’esercizio della responsabilità di avvocato.

Gli avvocati sono i primi difensori della legalità…

Gli anni nei quali si è sviluppata la vicenda di mio padre offrono più di una testimonianza. Si pensi, per esempio, alla figura di Fulvio Croce. Il coraggio di Croce rappresenta quello che hanno avuto tanti altri avvocati. La competenza tecnica e la missione di guardare con occhi antitetici rispetto a quelli di una accusa è strumentale a fare in modo che il giudice possa comprendere che cosa è successo. E giudicare in senso pieno.

Perché lei ha deciso di fare l’avvocato e seguire le orme di suo padre?

Non vorrei sembrare blasfemo, ma la “colpa” è di... Perry Mason. Di quel meraviglioso telefilm in bianco e nero, già vecchio quando lo guardavo da bambino. La prima idea di che cosa volesse dire fare l’avvocato nell’ambito penale l’ho avuta prima che mio padre prendesse le scelte che ha adottato per seguire ciò che riteneva essere il fine della sua vita. Mia madre ha fatto di tutto perché io non mi sentissi in dovere di fare quello che aveva fatto mio padre. Ha cercato di valorizzare al massimo il mio interesse per l’attualità, per il giornalismo, per la scrittura. Quando sono arrivato per la pratica nello studio nel quale lavoro tuttora, quello dell’avvocato Lodovico Isolabella, la prima domanda fu: “Perché vuoi fare l’avvocato?”. Le parole che mi sono uscite furono più o meno queste: perché voglio esserci nel momento in cui una persona è chiamata a confrontarsi con una responsabilità che ha avuto o che gli si imputa di aver avuto.

Il coraggio si può trasferire con esempi positivi o è una parte che ognuno di noi ha dentro di sé e può sfoderare all’occorrenza?

Io propendo per la prima ipotesi. Gli esempi di coraggio generano coraggio. Dovremmo entrare, sotto certi versi nella psicoanalisi, ma non è il caso e non ho le competenze. Quello che vedo è che chi non ha avuto la fortuna di incontrare degli esempi di coraggio è sconfortato. È rinunciatario. Chi invece ha avuto esempi di coraggio pensa di poter dar prova nel caso in cui è chiamato a darne testimonianza.

Lei viene invitato spesso nei Coa, ma anche nelle scuole e nelle università, per ricordare la figura di Giorgio Ambrosoli. Quali sono le testimonianze d’affetto che più la confortano?

Sono le testimonianze di chi non ha nessun legame con la storia di mio padre. Non ha un legame cronologico, perché troppo giovane, non ha un legame territoriale, perché vive in un’altra città o regione. Mi colpisce come tante persone abbiamo la capacità di arrivare al punto dei problemi. All’anima della vicenda. Da un altro lato mi colpisce come tante persone riescano a cogliere nella vicenda di mio padre ciò che scalda il loro cuore e li fa sentire protagonisti nel desiderio di voler conoscere la storia di una vita.

Si può vivere, prendendo spunto dal titolo di un suo libro di qualche anno fa, “Liberi e senza paura”?

La storia di mio padre mi porta a rispondere affermativamente. Non vorrei però dare l’idea di un papà imprudente. La paura è uno strumento che ci serve per decidere meglio. Io ricordo Ardito Desio in una meravigliosa intervista televisiva, con dei bianchi e neri ormai sgranati, che ad un certo punto risponde al giornalista. Quest’ultimo esaltava le sue imprese. Ardito Desio si è quasi offeso per come veniva presentato e disse che chi non ha paura in montagna muore. La paura ci serve per poter superare ciò che la genera nella maniera migliore.