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VITTORIO MANES AVVOCATO
«Il caso Garlasco è certamente una delle più vivide espressioni dei cortocircuiti che possono instaurarsi tra indagini e comunicazione, tra inchieste e cronaca giudiziaria, tra processi nelle aule e processi mediatici, e da questo punto di vista può risultare indubbiamente emblematico, quasi un caso di scuola», afferma Vittorio Manes, ordinario di diritto penale all'Università di Bologna, a margine della pubblicazione, nei prossimi giorni, del suo ultimo saggio L’imparzialità del giudice nel “vortice” della giustizia mediatica (Editoriale Scientifica, Napoli, 2025. Pp. 1-95).
Professor Manes, la vicenda Garlasco e la sua spettacolarizzazione ha certamente determinato una “sbornia” agli occhi opinione pubblica sugli effetti nefasti del processo mediatico. Crede che ci troviamo di fronte ad uno spartiacque? E che quindi anche il cittadino medio si sia ormai reso conto che l’attuale sistema della comunicazione giudiziaria non funziona?
Il caso Garlasco ha generato una reazione ed una maggior consapevolezza in una parte dell’opinione pubblica: ma non sono sicuro che la reazione significhi maggior consapevolezza sui guasti della “giustizia mediatica”, o invece minore fiducia nella giustizia istituzionale, sulla sua credibilità ed affidabilità. Il confine è molto sottile, e questo è il rischio maggiore: che il processo celebrato sui media, con i suoi eccessi narrativi, i suoi toni sensazionalistici, le sue rivelazioni scandalistiche, con la celebrazione di una “giustizia senza processo”, indebolisca la giustizia istituzionale corrodendo irreparabilmente la fiducia dei cittadini nel sistema istituzionale di accertamento di fatti e responsabilità.
E' un tema, quello della fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario, che spesso viene sottovalutato.
Si, ed è un rischio molto pericoloso in una democrazia, che ha le sue basi edificative nella fiducia dei cittadini nel sistema di giustizia.
I magistrati, i pm in particolare, per anni hanno tratto grande visibilità per le loro indagini da questo meccanismo. Quali sono le conseguenze?
A me pare che, nel contesto della giustizia mediatica, sia molto diversa la posizione della magistratura inquirente rispetto alla magistratura giudicante. La magistratura inquirente è protagonista dalla narrazione mediatica, e il più delle volte né è coautrice, visto che i media accendono i loro fari nella fase delle indagini, e spesso li spengono via via che il processo reale fa il suo corso. La magistratura giudicante è, invece, miniaturizzata dal processo mediatico, appunto perché questo non è particolarmente interessato alla fase della decisione, men che meno all’esito dei tre gradi di giudizio. Il processo mediatico si sostituisce alla giustizia e finisce così col sottrarre la giustizia dalle mani dei giudici, alimentando quella pericolosa competizione tra giustizia virtuale e giustizia reale di cui accennavo prima.
La “giustizia mediatica”, in altre parole, arriva prima?
Si, con le sue valutazioni veloci e frugali, con le sue sentenze sommarie, quasi sempre di condanna anticipata e inappellabile; la giustizia reale, il processo vero, è lento e macchinoso, e la sua conclusione sopraggiunge quando ormai nell’immaginario collettivo si è formato un convincimento, spesso distorto e curvato in senso colpevolista, che non sarà disgregato neppure di fronte ad una assoluzione “con formula piena”, come si diceva un tempo. Peggio: la verità mediatica – una pseudo-verità di pronto consumo, semplificante e semplicistica, divulgata con toni sensazionalistici e voracemente digerita dall’opinione pubblica – spesso sopravvive e soppianta la verità processuale accertata nel processo.
Secondo lei, quanto sta accadendo in queste settimane proprio riguardo la vicenda Garlasco, con i magistrati finiti nel mirino per le modalità di conduzione delle indagini sulla morte di Chiara Poggi, potrà condizionare l’esito del prossimo referendum sulla separazione delle carriere fra pm e giudici o non sposterà un voto?
Non so se la crescente consapevolezza sulle distorsioni del processo mediatico possa condizionare le valutazioni dell’opinione pubblica sulla separazione delle carriere, i problemi sono molto diversi anche se non mancano intersezioni, perché sullo sfondo vi sono pur sempre i valori della terzietà e dell’imparzialità del giudice, e la necessità di garantirli e proteggerli da possibili fattori di condizionamento.
Crede che il processo mediatico influisca in qualche maniera sul giudicante?
L’imparzialità, in particolare, mi pare messa a dura prova dalla narrazione mediatica della vicenda processuale, perché il giudice - dopo che nel circuito mediatico si è già celebrato un “processo parallelo” e nell’opinione pubblica si è generata una certa aspettativa e si è radicato un determinato “orizzonte di attesa”, di regola colpevolista - non è più libero di decidere, ma deve dire da che parte sta: se sta dalla parte della pubblica opinione che si aspetta la condanna, o se sta dalla parte di imputati che la vox populi considera già colpevoli. E in questa “morsa mediatica”, ci vuole molto coraggio per assolvere, o anche solo per riconoscere una circostanza attenuante o, peggio ancora, per dichiarare l’intervenuta prescrizione del reato.
Ritiene dunque reale il rischio di “condizionamenti” esterni per il giudice?
Il rischio di condizionamento, effettivamente percepito o anche solo subliminale, credo sia innegabile, ed anche se non è facile reperire evidenze empiriche mi pare francamente ingenua la posizione che ritiene il giudice togato immunizzato dal proprio corredo professionale, corredo che lo riparerebbe – come ritiene anche un orientamento della Cassazione - da possibili contaminazioni distorsive. Una posizione tanto comoda quanto inappagante, specie nell’attuale contesto di esplosione del fenomeno non solo sui canali mass-mediatici tradizionali, ma nell’universo scomposto e privo di regole dei social network. Se i tribunali non operano nel vuoto, come ama ripetere la Corte di Strasburgo per sottolineare che certi possibili effetti o bias di contesto sono verosimilmente ineliminabili e vanno accettati, dobbiamo però riflettere su quanto forti oggi siano diventati questi condizionamenti, conoscerli per ri-conoscerli e neutralizzarli, in modo da ridurre il rischio per il giudice di cadere preda delle distorsioni cognitive e dalle trappole valutative che possono essere generati dal vortice mediatico.
La vicenda Garlasco, in conclusione, ci interroga tutti su quale giustizia vogliamo.
Certo. C’è un evidente ed enorme problema culturale, che concerne la preferenza tra la giustizia sommaria e il giusto processo, tra la giustizia a furor di popolo e le garanzie processuali, l’alternativa tra la pubblica gogna e i diritti della persona, e in definitiva tra la civiltà del diritto e la barbarie: un problema, insomma, di concezione delle forme e dei modi di fare giustizia in uno stato di diritto, o in quel che ne rimane.