Il dibattito estivo sul “burkini”, con la Francia che si sta trasformando da patria dei diritti a paese dei divieti, è tutto sommato abbastanza ridicolo. In sintesi: per burkini si intende l’abbigliamento delle donne islamiche sulla spiaggia. Una sorta di tuta che copre il corpo dalla testa alle caviglie, lasciando scoperti solo il viso, le mani e i piedi. Cioè lo stesso abbigliamento delle donne che noi incontriamo ogni giorno nelle strade delle nostre città, essendo nel mondo occidentale piuttosto rare le donne che indossano il burqa o il niqad, che coprono anche il viso. Lo scandalo -nato in Francia ma che si era già sviluppato a Milano sui bordi delle piscine- è dovuto al fatto che alcune donne si sono presentate coperte a quel modo sulle spiagge della Corsica e della Costa azzurra.Il fatto non dovrebbe suscitare nessuna sorpresa. Prima di tutto perché la vera libertà di un Paese che rispetti i diritti di tutti dovrebbe poter consentire a chiunque di fare il bagno abbigliato come preferisce (o anche senza abito alcuno), in secondo luogo perché coprirsi tutto il corpo per strada o sulla spiaggia non dovrebbe fare alcuna differenza. Diverso è il discorso (che deve riguardare tutti, di ogni nazionalità, etnia o religione) di ordine pubblico e la necessità che ciascuno abbia il viso scoperto e riconoscibile.In Francia, dove il Parlamento aveva già vietato per legge l’esibizione di simboli religiosi nei luoghi pubblici, alcuni sindaci hanno pensato bene di vietare e di sanzionare con una multa chi indossi il “burkini”. Il premier Manuel Valls si è dichiarato d’accordo (e incredibilmente anche il ministro dei Diritti delle donne Laurence Rossignol), rilevando come quel particolare abbigliamento non sia una nuova moda o un nuovo tipo di costume da bagno, ma «l’espressione di un’ideologia basata sull’asservimento della donna».Un argomento molto serio e condivisibile, ma che contrasta con il sistema del proibizionismo, che rischia di diventare altrettanto costrittivo nei confronti delle donne. E che è in contraddizione con l’abbigliamento quotidiano della gran parte delle donne di religione islamica, che nessuno finora ha vietato in nessun paese europeo. Il problema quindi non può essere affrontato con i divieti, ma va affrontato. E subito. Non sono così lontani i tempi della repubblica islamica iraniana, così ben descritta da Azar Nafiri nel libro tradotto in 32 paesi Leggere Lolita a Teheran. Un paese in cui le donne non potevano più studiare né vestirsi in libertà e dovevano coprirsi persino per andare a dormire perché nel caso in cui fossero morte per una disgrazia come il terremoto o l’incendio o un raid aereo, il loro corpo non doveva comunque essere mostrato, neanche nella rigidità della morte.E la storia di questi giorni ci mostra le immagini della città siriana di Manbij liberata, dove le donne bruciano i veli, simboli della loro oppressione. Parlare di libertà è dunque difficile, anche se alcune donne, se interrogate, ci direbbero di aver scelto senza costrizione di coprire il proprio corpo. Ho avuto occasione, una volta, di avviare il discorso con un imam di Milano. Mi ha spiegato, con molta sincerità, che qualunque uomo, vedendo parti scoperte del corpo femminile, «si emoziona». Voleva dire «si eccita», ovviamente, aveva edulcorato il termine per una qualche forma di rispetto nei miei confronti. Mi ha anche confermato che, nella loro ideologia, il corpo della donna è considerato “impuro”, e questo spiega la necessità di coprirlo.Ecco, da qui bisogna partire. Quando chiediamo alla comunità islamica di dissociarsi dal terrorismo (compito facile facile), cerchiamo di fare un passettino in più, discutiamo di che cosa significhino davvero la parità dei diritti e il rispetto delle donne. Vietare non serve a niente. Magari ha anche ragione il ministro Alfano quando dice che con i divieti si stuzzicano anche i terroristi. Ma non è solo questo. È anche una questione di convivenza e di rispetto dei diritti non solo delle donne, ma anche della nostra cultura. E di diritti che abbiamo faticosamente conquistato.P. S. Mi affaccio alla finestra della cittadina di mare dove sono in vacanza e vedo una simpatica famigliola: lui davanti in bermuda e infradito, lei tutta coperta e accerchiata da una nidiata di bambini, cammina due passi indietro. Per ora mi limito a chiudere la finestra.