Ieri sera, in un teatro romano a pochi passi dal Parlamento, è iniziata ufficialmente la lunga commemorazione pubblica di Tangentopoli. In realtà siamo leggermente in anticipo: la data ufficiale del trentennale è quella del 17 febbraio 2022, giorno in cui ricorreranno i trent'anni esatti dall'arresto di Mario Chiesa, “il mariuolo”, come lo definì Bettino Craxi, divenuto icona e simbolo dell’inizio di Tangentopoli. Possiamo dire subito una cosa: non sarà una commemorazione come le altre, non sarà un pranzo di gala; sarà invece uno scontro duro, un confronto serrato tra chi pensa che Tangentopoli fu l'inizio del rinascimento italiano e chi invece è convinto che si sia trattato di un golpe messo in atto da un pezzo di magistratura col sostegno di qualche servizio straniero. Ma torniamo a quella sala del teatro Umberto di Roma. Sul palco, a parlare di quella stagione e a commentare il bellissimo libro di Giuseppe Gargani - “In nome dei pubblici ministeri” - , c’era anche Gherardo Colombo. Colombo, come tutti sanno, è stato uno degli attori principali di quella stagione, uno dei pm del pool che insieme a Di Pietro e Davigo, e sotto la guida raffinatissima di Borrelli, ha cambiato i connotati della politica italiana. Gherardo Colombo, a dire il vero, è sempre stato considerato la colomba - nomen omen - di quel gruppo di magistrati molto determinati e convinti che la loro fosse una missione che andava ben al di là della giustizia: molti di loro pensavano di dover cambiare la coscienza stessa del paese, il “precario” senso di legalità degli italiani. Per questo devono aver pensato che qualche piccola forzatura del diritto tutto sommato fosse accettabile, giustificata dall'obiettivo imponente che si erano prefissi. E così l’uso della galera preventiva, degli avvisi di garanzia branditi come condanne e dati in pasto ai giornali prima ancora che il diretto interessato ne fosse informato, erano “effetti collaterali inevitabili”. Ma Colombo, che pure è un raffinato giurista e un uomo devoto al dialogo, non ha ceduto di un millimetro, non ha mai riconosciuto neanche il minimo deragliamento da parte della magistratura italiana. Anzi, ha rivendicato con fermezza, a tratti con durezza, l'assoluta correttezza e trasparenza del lavoro svolto dal pool milanese. Eppure fu un suo collega a dire «noi non li mettiamo in carcere per farli parlare, ma li liberiamo se parlano…». Insomma, il dottor Colombo ha parlato a lungo di pacificazione ma non ha mai messo in discussione l'operato della procura di Milano. La pacificazione è un'intenzione seria ma è anche un processo lungo e doloroso: ognuno deve avere la forza e il coraggio di guardare ai propri errori, ai propri eccessi, senza ipocrisie e liberandosi di qualsiasi tentazione corporativa. E quegli arroccamenti sembrano più le premesse di una nuova guerra. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno...