Edoardo Albinati è scrittore e insegna nel penitenziario di Rebibbia. Il suo libro, La scuola cattolica [Rizzoli], è finalista al Premio Strega. Nel 2002 ha lavorato presso l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati in Afghanistan e nel 2004 è stato in missione in Ciad. Recentemente, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, durante gli incontri con Paolo Mieli (a cura di Paolo Giaccio, Maddalena Maggi e Maria Carolina Terzi), ha dichiarato che a 12 anni tentava di venire a capo dell’insonnia leggendo Edgar Allan Poe. A noi ha confessato che ora il suo problema non è addormentarsi, bensì svegliarsi nel cuore della notte: ma una fortunata combinazione di libri molto lunghi e benzodiazepine ha tamponato questo problema.Partiamo dal titolo: c’è, secondo lei, una relazione tra la scuola cattolica e una certa recrudescenza di razzismi, discriminazioni, violenze?Credo ci siano due ordini di discorso diversi. Uno è quello del mio libro, che tratta personaggi e dinamiche peculiari di certi anni, valido solo letterariamente, almeno spero, e che non equivale ad alcun pronunciamento di tipo sociologico. Il secondo è quello degli istituti privati di ieri e di oggi frequentati di fatto da chi se lo può permettere, cioè da una élite. Questa discriminante sociale ha poco a che fare con l’aspetto religioso in quanto tale. Ed è altrettanto fuori di dubbio che, nella storia, e fino a pochi decenni fa, la Chiesa si sia schierata a parole con i deboli ma con i forti nei fatti, alleandosi naturalmente alle forze conservatrici. D’altro lato, la scuola cattolica è il luogo in cui per eccellenza si dovrebbe insegnare e si insegna esattamente l’opposto del razzismo e della discriminazione. Sicché alla fine, nella realtà, sono quasi solo i preti che aiutano i deboli. Se c’è qualcuno che si dà da fare, oggi, e che si mescola ai poveri, sono proprio loro.Il protagonista del suo libro è Edoardo Albinati, scrive in prima persona e annulla le distanze tra scrittore e lettore, spesso rivolgendosi direttamente al lettore stesso. Il motivo di questa scelta?Oltre che protagonista del libro, ne sono sopratutto il narratore. I personaggi del libro includono chi lo sta raccontando. A volte ho parlato con un io, a volte con un noi. L’appello diretto al lettore mi ha dato l’opportunità di rivivere insieme a lui le sensazioni di fatica e smarrimento e sorpresa: scrittura e lettura del libro procedono in parallelo. E’ un romanzo? E’ un saggio? mi si chiede. A tre mesi dall’uscita de La scuola cattolica Mi sembra di aver trovato la definizione più appropriata: questo libro è una confessione. E della confessione ha il carattere diretto, orale – i lettori insomma sono i confessori, chiamati a condannare o ad assolvere. Non solo me, ma anche loro stessi. Il mio è il racconto dei nostri peccati. Ha un carattere personale, e insieme collettivo. A costo di parere megalomane, i libri più somiglianti come genere sono Le Confessioni di Rousseau e di Sant’Agostino. Ho sempre pensato che la confessione sia il precursore del romanzo, il suo esordio. Sant’Agostino per la prima volta, dopo tanti meravigliosi racconti di eroi e battaglie, ha il coraggio di raccontare la propria anima, i propri sogni, i propri pensieri e desideri e dà inizio al grande romanzo moderno.Ha scritto il libro che voleva o, come accade spesso, la storia e la scrittura l’hanno portata altrove?Io non sapevo affatto che libro volevo. Il libro l’ho raccolto per la strada. Il libro che ho scritto è la ricerca del libro stesso. Avevo la vaga idea di iniziare con l’amicizia tra me e Arbus, poi man mano ho scovato tutti gli altri personaggi. Il massacro del Circeo è stata lo spunto iniziale, quindi si è ridotto a un nucleo radioattivo sepolto nel libro: poche pagine ad alta contaminazione. Rispetto al fatidico 1975, sono tornato indietro di qualche anno e mi sono chiesto quanto fossimo vicini noi e gli assassini. Volevo individuare un minimo comun denominatore, gli indicatori della somiglianza. Angelo Izzo e io abbiamo il novantanove per cento di cose in comune: abitavamo a due passi l’uno dall’altro, vivevamo nello stesso tipo di famiglia, frequentavamo la stessa scuola. Quindi sono andato andato oltre, rischiando, e ho provato a scrivere della prossimità di qualsiasi maschio, in quanto tale, alla violenza sulle donne. Ho scoperto il fondamento oscuro, rimosso, represso che fa sì che vi sia, nel rapporto tra uomo e donna, un’inclinazione alla violenza, fortunatamente quasi mai portata a segno, ma sempre implicita, sospesa, incombente. Non mi sono inventato niente: le teorie femministe degli anni ’70 e poi le riflessioni sull’identità maschile che ne sono seguite dicono proprio questo, io le ho solo utilizzate in un romanzo, e forse in questo sono stato il primo. E ho capito anche come fosse contaminante questo delitto, per tutti quanti, i maschi, le femmine – voglio usare esplicitamente questa connotazione sessuale per definirci – e sopratutto per la gente “perbene”, impreparata e convinta che i mostri fossero sempre altrove.Mostri: la parola che assolve da qualsiasi responsabilitàCerto. La società se la cavò con la soluzione più semplice: definirli mostri. Fino ad allora non era mai stato preso in considerazione quanto la natura maschile fosse strutturalmente fragile, impotente, risentita, e proprio per questo tentata di surrogare le proprie manchevolezze con l’uso della violenza. Inadatti a soddisfare i modelli virili proposti, irraggiungibili, alcuni li replicavano in modo feroce e parossistico. Nel mio romanzo rovescio completamente le teorie psicanalitiche che vedono la donna come un essere mutilato, una specie di maschio incompleto, e provo invece a ripercorrere, a partire dall’esperienza diretta dei miei personaggi, la sofferenza tipicamente maschile della mancanza di integrità e la vergogna della debolezza vissuta come una colpa, uno strappo ancestrale.Due donne oltraggiate, stuprate e torturate: c’è un legame, secondo lei, tra il massacro del Circeo e la grande quantità di donne uccise dai propri uomini negli ultimi anni, oppure la matrice è diversa?La matrice è sempre la smania di possesso. Il corpo femminile è solo il teatro anatomico del crimine, l’aspetto sessuale è solo una tappa intermedia che può essere saltato del tutto, come nel duplice delitto commesso da Angelo Izzo nel 2005. L’omicidio diventa un atto estremo e paradossale di possesso. E’provato da un ragguardevole numero di indagini scientifiche il fatto che quando si ha un altro essere umano in totale balia, si può sviluppare una pulsione a distruggerlo, ad annientarlo, molto forte. Philip Zimbardo ha fatto un esperimento significativo all’università di Stanford: assegnò il ruolo di guardia o prigioniero ad alcuni volontari, in un carcere simulato. Nel giro di due giorni, chi impersonava le guardie – tutti uomini scelti in base a uno spiccato equilibrio psicofisico, alla maturità e alla scarsa inclinazione nei confronti di comportamenti devianti, cominciò ad abusare del proprio potere, torturando i detenuti. La violenza è un sostrato implicito sempre attuabile. Basta una scintilla a scatenarla.Di fronte a delitti di questo tipo è giustizialista o garantista?Io sono garantista, sia di pancia, per così dire, sia col cervello. Ma non posso non accorgermi dei paraocchi indossati da un certo atteggiamento eccessivamente soccorrevole e quasi festoso nei confronti dei colpevoli. Nessuno tocchi Caino lo può dire solo Dio: gli uomini devono prendere il colpevole e punirlo, altrimenti si va verso il dissolvimento del vincolo sociale, si favorisce l’assoluta prepotenza del forte sul debole, e lo dico appunto da garantista, perché tutto ciò deve accadere secondo regole inaggirabili. Il problema è che in Italia il potere sembra agire in modo arbitrario: o ti massacra o chiude un occhio, anzi due. Agisce in modo al tempo stesso capriccioso e lassista. Proprio come nella favola più eloquente sulla società italiana, e cioè, “Pinocchio”.Nel suo libro, lei scrive della «straordinaria insolenza che hanno i fascisti nel proclamare che essi agiscono nel nome dell’ingiustizia». Qual è l’ingiustizia che più la colpisce, ora?Una forma peculiare del nostro tempo è l’aggressività verbale, la virulenza che si scatena sul web. Con punte di fascismo puro, più puro anche perché astratto, e molto spesso anonimo, secondo cui l’avversario è da annientare, da spazzare via, un avversario che, a sua volta, viene scelto nel mucchio. Mai lette tante carognate in poche righe, magari sotto la forma di battutacce di spirito, altra specialità fascista. Ecco, non sono affatto convinto che il web alberghi spirito di giustizia ed equità. Del resto, la giustizia non è attraente quasi per nessuno, a tutti piacerebbe poterci distinguere, andare controcorrente, scatenare il nostro risentimento. Peter Sloterdijk definì i partiti politici “banche dell’ira”, dove la gente andava a depositare il proprio piccolo patrimonio di odio. La grande scoperta delle scienze sociali è che il novantanove per cento delle nostre scelte è guidato dall’emotività: quindi dall’odio, dal rancore, dalla speranza, e dal desiderio. Ed è sempre un’onda emotiva a innescare i cambiamenti, positivi o negativi che siano: se non ci fosse quest’onda, saremmo ancora sotto gli Austriaci e i Borboni.In un passo ha scritto che – cito a memoria – questo libro le ha dato la possibilità di «staccare delle figurine da un fondo bianco», di dare quindi tridimensionalità alle persone. È stato doloroso?Ritagliare quelle figure è stato più una fatica che un dolore. Fatica fisica e spirituale. C’è ovviamente una certa quota di piacere dovuto alla specificità del lavoro di scrittura, ed è un risarcimento forte. L’ultimo anno, il 2015, quando finalmente ho chiuso il libro, ho provato una profondissima angoscia dovuta alla consunzione delle forze. Mi sono ritovato di colpo più vecchio di dieci anni: ed erano in effetti passati dieci anni da quando avevo iniziato! Le energie sono venute meno di colpo. Ma la fatica dello scrittore, nel caso del mio libro, va di pari passo con la fatica del lettore: 1300 pagine non sono poche a scriverle, ma nemmeno a leggerle!Il libro che avrebbe voluto scrivere?L’ultimo letto, di cui sono assolutamente entusiasta – invidio il libro, ma non l’autore che deve averne passate fin troppe per scriverle– è Vita e Destino, di Vasilij Grossman. Rispetto a questo capolavoro, il mio è una bolla di sapone.Cosa ha cambiato – ammesso che qualcosa abbia cambiato - la candidatura al Premio Strega nell’opinione che aveva del suo libro?L’unico effetto vero e potente è stato quello di confermarmi quanto già sapevo: il grandissimo entusiasmo, affetto e sostegno del mio editore. Si è messa in moto una macchina che è al tempo lavorativa e sentimentale, in un modo che mi commuove profondamente. Sul mio libro in verità non avevo alcuna opinione: me l’hanno data lettori e votanti.Escluso il suo, quale dei quattro libri rimasti vorrebbe vedere vincitore dello Strega?Forse quello di Eraldo Affinati, così continuerebbero a confondermi con lui.