La condanna - in primo grado - all’ergastolo per gli ormai celebri fratelli Bianchi è una tempesta perfetta, impastata di ragione e sentimento. È una vicenda che entra dentro, scarnificando ogni certezza: genera sofferenza autentica per la vittima e affonda nelle carni molli dell’istinto, nutrendo l’efferatezza inconsapevole (o, forse, troppo consapevole) del senso di vendetta. Siamo umani, del resto.

Per questo, sarebbe facile (e, in effetti, per molti lo è) sostenere che - non trovandoci direttamente travolti, ma neppure sfiorati, dall’odore acre di dissolvenza della giovane anima di Willy - non avremmo il diritto di invocare il diritto, perché a dolore deve corrispondere sempre dolore. Ma è esattamente qui e adesso che si rischia tutto: fuori o dentro il sistema penale. È un groviglio di contrasti, perché si vacilla con la prova più dura: garantire la vittima e garantire il (presunto) reo. Che cos’è tutto ciò, se non il sacro santuario del processo?

Un percorso impervio di uomini e di fatti, alla fine del quale si dovrebbe sublimare il più alto concetto del nostro patto sociale: la giustizia. La pena afflittiva in sé, che dimentica la rieducazione e degrada a taglione mediatico, non può farne parte: quella è una giustizia estemporanea che ha fretta e passa oltre, ma non rispetta nessuno. Che si chiami Abele o Caino. L’insegnamento di Victor Hugo - lucidissimo nella sua immensa complessità - è in poche parole di quasi duecento anni fa: “Questa testa di popolano coltivatela, dirozzatela, annaffiatela, fecondatela, illuminatela, moralizzatela, utilizzatela… non avrete bisogno di tagliarla”. (*Avvocato, presidente Movimento forense)