Nell’agosto scorso, subito dopo l’inizio della crisi, innumerevoli esponenti politici e commentatori hanno sbandierato il rischio che la Lega, vincendo le elezioni, conquistasse di lì a poco anche le cariche istituzionali di garanzia, come argomento forte che imponeva di evitare le elezioni. In parte si trattava di una scusa, ma in parte il rischio era reale. Sarebbe stato altrettanto minaccioso a parti rovesciate. Quello che in quei giorni concitati sfuggiva, però, era il dilemma e la contraddizione che quell’allarme indicava e implicitamente denunciava.

Veniva infatti delineato un conflitto tra i due elementi fondanti del meccanismo democratico: sovranità popolare e equilibrio istituzionale di garanzia. Dire che non si può votare altrimenti si rischia che frani il sistema di pesi e contrappesi proprio della democrazia significa ammettere, al di là della circostanza contingente, che c’è un problema molto più radicato, tale da non poter essere affrontato, e tanto meno risolto, rinviando di qualche mese o qualche anno le elezioni.

Il mezzo individuato già allora per evitare la distorsione antidemocratica, del resto, è a sua volta un indicatore inequivocabile del medesimo problema. Si tratta infatti di una legge elettorale nuova di zecca, la quinta dal 1993 contando quella mai entrata in vigore pur se imposta con un inaudito voto di fiducia da Matteo Renzi e affossata dalla Corte costituzionale.

Se ne sta in effetti discutendo, secondo l’uso invalso in Italia di modificare la legge elettorale a seconda degli interessi ( spesso presunti) della maggioranza di turno, espediente che basta di per sé a rendere fragile perché miope ogni modello elettorale. Tanto più quando la maggioranza parlamentare non corrisponde a quella del Paese. Nel dibattito politico, tutto interno alla coalizione M5S- Pd, si ripropone però l’eterno dilemma tra maggioritario e proporzionale che data da quasi trent’anni, nel corso dei quali ha trasformato il sistema elettorale italiano in una corsa sulle montagne russe.

L’inadeguatezza dell'impianto istituzionale non è un guaio solo italiano. Si ripropone, in forme diverse, in buona parte dei Paesi europei. In Italia però la crisi ha radici più lontane. Data da decenni, al punto da costituire ormai un modello di transizione così infinita da aver perso di vista l’approdo.

L’esigenza di rivedere l’architettura istituzionale ha origine addirittura negli anni ’ 80 del secolo scorso, nella ' Grande riforma' sbandierata da Bettino Craxi, nelle inutili Commissioni presiedute da Nilde Jotti e Ciriaco De Mica. Ma se si dovesse stabilire con maggior precisione l’inizio del caos bisognerebbe indicare il biennio 1992- 93: Mani Pulite da un lato, il referendum contro il sistema proporzionale dall’altro.

Quelle due spinte convergenti determinarono sì il tracollo della Prima Repubblica ma senza dar vita a un nuovo edificio istituzionale. Da allora solo la Bicamerale presieduta da D’Alema nel 1997- 98 ha provato seriamente a rivedere la seconda parte della Costituzione. Per il resto ogni riforma è stata imposta a colpi di maggioranza e poi, a eccezione di quella sul federalismo del centrosinistra, bocciata nel referendum. In questo caos permanente si ripropongono, da quasi 27 anni sempre gli stessi nodi irrisolti che portano regolarmente in un vicolo cieco.

La citata oscillazione tra ispirazione proporzionale e maggioritaria, affrontata regolarmente con improbabili sistemi misti e dunque mai risolta. Lo slittamento della centralità del sistema dal potere legislativo verso quello esecutivo, puntualmente praticata però non codificata e quindi priva dei correttivi che sarebbero necessari.

L’ambiguità intorno all’elezione diretta, spesso mimata pur non essendo mai esistita: la conseguenza è che ogni governo frutto di accordi parlamentari viene vissuto da una parte non esigua dell'elettorato come ' truffa'. L'incapacità di regolare i rapporti tra potere giudiziario e politica, nodo scorsoio che strangolò la Bicamerale dalemiana.

Il rapporto concorrenziale tra Stato centrale e Regioni, conseguenza diretta della pessima riforma costituzionale varata, con esigua maggioranza, nel 2001 dal centrosinistra. Quasi tutti questi elementi erano presenti, in forma già dispiegata o in potenza al momento del crollo della Prima Repubblica. Da allora non ne è stato risolto nessuno, molti sono peggiorati, qualcosa si è aggiunto. A parte il tentativo della Bicamerale, le forze politiche non hanno mai fatto alcun vero tentativo di riscrivere insieme le regole di sistema.

Le scarse proposte avanzate periodicamente, ultima quella di Giancarlo Giorgetti, sono state o rifiutate o avvolte e soffocate nel silenzio. In questa situazione si può capire il timore che dallo stallo permanente si finisca per uscire con una sterzata ' illiberale', cioè con un drastico ridimensionamento della democrazia sostanziale.

L’antidoto sarebbe la capacità di tutti di rientrare in un perimetro di reciproca legittimazione e poi di riscrivere regole diverse da quelle del 1948 per un sistema che non è più quello del 1948, e per molti versi nemmeno gli somiglia. Nella situazione data, è un miraggio.