Vorrei provare ad evitare i due slogan contrapposti – e insensati - che in genere accompagnano questa discussione. Il primo è: «Sei un razzista». Il secondo, di risposta al primo, usatissimo dai leghisti: «Se ti piacciono tanto i profughi, perché non li porti a casa tua?». Magari è anche possibile discutere dei problemi della immigrazione senza riprodurre lo schema della competizione sportiva.

Naturalmente, per tentare una impresa di questo genere, bisognerebbe decidere che problema dell’immigrazione e campagna elettorale non sono la stessa cosa. Operazione quasi impossibile per un esponente politico, ma che noi giornalisti, in fondo, possiamo permetterci.

Personalmente sono convinto che una grande civiltà, come è quella europea nella quale viviamo, debba farsi carico del problema dell’immigrazione massiccia che è in corso dai paesi poveri del Sud del mondo. Il flusso di donne e uomini che fuggono dall’Africa è diventato molto consistente, ma comunque di dimensioni assolutamente compatibili con la nostra economica. Parliamo, per l’Italia, di alcune centinaia di miglia di persone giunte sulle nostre coste nel corso degli ultimi dieci anni, in un paese di sessanta milioni di persone. Immigrazione: litighiamo, ma senza anatemi

Considerando che molti profughi finiscono poi per andare a vivere in altri paesi europei, la percentuale dei rifugiati dall’Africa rispetto alla popolazione italiana è molto modesta. Tra lo 0,1 e lo 0,2 per cento. Chiunque capisce che con gli attuali standard della globalizzazione è assolutamente impossibile immaginare che si possa arginare questo flusso. Noi viviamo in un paese che dista poche centinaia di chilometri dalle cose dell’Africa.

Quasi confinante. In Italia il reddito pro capite è di circa 35 mila dollari all’anno, nella maggior parte dei paesi africani è inferiore ai 5000 dollari, in alcuni non raggiunge i 1000 dollari. In media il rapporto è di uno a 10. E’ uno squilibrio lontanissimo da quello che esiste tra i paesi dell’Occidente. Calcolate che gli Stati Uniti hanno un reddito pro capite di circa 55 mila dollari, cioè una volta e mezza il nostro reddito. Mentre in Congo il reddito è di circa 700 dollari all’anno, e cioè è trentacinque volte più basso del reddito italiano. Voi capite bene che se persino l’immigrazione italiana verso gli Stati Uniti ( o verso la Germania e il Belgio, che hanno un reddito di pochissimo superiore al nostro: circa 1,2 volte) è ancora in corso, figuratevi se è arrestabile l’immigrazione da paesi dieci o venti o trenta volte più poveri del nostro. Provate, per assurdo, a immaginare l’inverso. E cioè che a poche centinaia di chilometri di mare dall’Italia ci siano paesi dove il reddito medio pro capite sia di venti o trenta volte superiore al nostro, e cioè sia di mezzo milione o di un milione di dollari all’anno. Quanti italiani deciderebbero la traversata? Quasi tutti... Dunque le vie per affrontare il problema sono due. O si trova il modo per arrestare l’immigrazione, con soluzioni necessariamente di tipo poliziesco o militare, bloccando i confini; oppure ci si attrezza per ridurre l’impatto sociale dell’immigrazione, senza respingerla. Ed è esattamente su questa alternativa, e non sulle sue implicazioni ideologiche, che dovrebbe con- centrarsi la discussione. Invece, purtroppo, le implicazioni ideologiche hanno un effetto molto forte, dicono gli esperti, sui flussi elettorali. E questo rende quasi impossibile un dialogo sereno. Proviamo invece ad essere oggettivi. Chi propende per una soluzione militare adduce una ragione molto semplice: l’Italia non è ricchissima ( pur essendo tra i venti grandi paesi più ricchi al mondo), la crisi morde, negli ultimi anni sono aumentate la povertà e il numero di poveri, di conseguenza esiste la priorità della battaglia sociale sul fronte interno, che deve assorbire tutte le risorse. Per questa ragione bisogna bloccare l’immigrazione clandestina. Perché i clandestini costano allo Stato, talvolta portano via il lavoro agli italiani poveri, talvolta si aggregano alla delinquenza.

Chi invece propende per l’accoglienza ( fondamentalmente la Chiesa cattolica, la piccola sinistra radicale e in forme talvolta contraddittorie una parte del Pd) pone i valori “umanitari” al di sopra della realpolitik, considera xenofoba e razzista ogni politica di respingimento, e pretende, di conseguenza, una azione di soccorso senza limiti, o la creazione di corridoi umanitari nel Mediterraneo.

Trasversalmente tra queste due posizioni c’è chi dice: aiutiamoli a casa loro. Cioè collaboriamo allo sviluppo economico dell’Africa. Posizione nobilissima e incontestabile, che purtroppo, però, negli ultimi undici o dodici secoli ha portato risultati scarsissimi o addirittura, spesso, ha prodotto impoverimento del Sud del mondo. Difficile immaginare che in pochi anni un intervento un pochino più ingente possa davvero ridurre significativamente l’enorme gap di ricchezza del quale parlavamo qualche riga più sopra.

Allora proviamo a dividere nuovamente in due il problema. Da una parte c’è la questione etica e dall’altra il problema politico- economico.

La questione etica non può essere aggirata. Se un provvedimento di “blindatura” delle frontiere dovesse comportare un aumento delle morti in mare, naturalmente, non sarebbe possibile valutarlo senza tener conto delle implicazioni morali del provvedimento. E quando si parla di morti in mare si parla anche di morti prima o dopo il mare. Per capirci, se 700 persone, come è successo l’altro giorno, tra le quali molti bambini, vengono arrestate dai militari libici e condotte in un campo di concentramento, non possiamo considerare il problema come una questione non nostra.

E questa non è solo una questione “platonica”: è la sostanza della battaglia per lo Stato di diritto. Lo Stato di diritto, per essere tale, deve riguardare tutti. Non solo “i nostri”, gli amici: anche gli altri, gli stranieri, perché lo Stato di diritto non può non avere un carattere universale. E il diritto degli altri è l’unica vera garanzia per il nostro diritto.

Questo versante del problema, però, non può essere affrontato dai magistrati e dai responsabili dell’ordine pubblico. È necessario che le forze politiche se ne facciano carico, e il governo. E per affrontare la questione etica ( e rispondere, per esempio, a Marco Revelli che chiede di sospendere la campagna di odio contro “il samaritano”, cioè contro le Ong, contro i soccorsi, contro Msf) occorre che i partiti e i movimenti ( e anche alcuni Procuratori della repubblica) rinuncino a considerare la questione migrazione ( e la questione soccorsi) come un campo di battaglia per ottenere o perdere consensi.

Non può essere aggirata però neppure la questione politica. La soluzione del nodo etico non risolve il nodo politico. E non ha senso bombardare chiunque voglia affrontare la questione politica, e cioè la gestione di un flusso più forte del previsto di migranti, con gli anatemi e con lo sbandieramento della questione etica o morale. La questione politica ha una sua autonomia. E deve rispondere alla seguente domanda: come si può impedire che la concentrazione dei immigrati solo in alcune parti del territorio ( in genere le parti abitate da una popolazione più povera e più debole) crei inevitabili e drammatici conflitti tra popolazioni italiane e immigrati? Non è un problema da niente. Sia nelle piccole città sia nelle metropoli. E chiaro che il problema è meno sentito dai benestanti, che vivono in quartieri residenziali incontaminati, e più sentito dai ceti più poveri.

La soluzione del problema sta nel respingere gli immigrati oppure nel distribuirli in modo più organico, vasto e ragionato, su tutto il territorio nazionale e cittadino?

A me sembra che la soluzione giusta sia l’ultima. Non solo perché non entra in conflitto con i capisaldi dell’etica e della civiltà. Ma anche perché è più realistica e meno costosa. E rientra in un disegno armonico di società moderna e in corso di sviluppo.