Sentiamo dire spesso, e noi stessi usiamo questa espressione, che il processo è una rappresentazione. Non nel senso che esso abbia già un esito scritto e determinato, ma che esso ha proprie regole interne, sedimentate e, alla fine, sacramentate del codice di procedura penale. Ma, pur sempre, la somiglianza e la consonanza fra il processo e la rappresentazione è forte. La rappresentazione, però, ha anche proprie regole interne, che non debbono confliggere con quelle del processo. Un processo in video non è uguale a un processo in aula, “dal vivo”. Così come lo spettacolo dal vivo è profondamente diverso dalla sua rappresentazione televisiva.

Ce lo diceva già qualche decennio fa lo studioso delle comunicazioni Marshall McLuhan che il video, la comunicazione televisiva era un medium “freddo”, contrapposto ad altri mezzi di comunicazione, soprattutto quelli dal viso, che invece sono “caldi”. Cosa intendeva dire? Volendo semplificare molto, che in video ciò che viene detto e rappresentato è come distanziato e perde molta della propria emotività, non consentendo una partecipazione diretta, non consentendo di cogliere elementi ( talora magari periferici, ma significativi) e particolari che saprebbero restituire il clima e il momento di ciò che viene rappresentato. Il video, per sua natura, presuppone la distanza fra chi lo agisce e chi lo fruisce e questa distanza allontana i fatti, li forma talora addirittura distorcendoli. E’ questa una costante del mezzo televisivo. Né si dica che a tutto c’è rimedio, con accortezza e capacità: sempre il solito McLuhan giustamente sostiene che fra il mezzo di comunicazione ed il senso della rappresentazione è il mezzo che prevale: il medium è esso stesso il messaggio. Vale a dire che esso prevale ed impone le sue caratteristiche a chi lo usa.

Traduciamo tutto questo discorso in ciò che significa per il processo. Tenendo presente le esperienze già fatte qui da noi e, soprattutto, nei paesi in cui l’esperienza è andata più avanti, in Turchia, per esempio. La prima cosa che ne soffre è il controesame ( ma anche l’esame stesso): il controesame richiede chiarezza, duttilità e tempestività. Il video si presta a domande predefinite, ma non alla loro modificabilità che è essenziale. Nel video ciascuno fa la sua parte e ha un momento assegnato: è difficile intervenire durante l’esposizione altrui ( per esempio durante l’esame del PM), in esso le parti sono “congelate”: in questo senso si parla di un medium “freddo”. Chiunque, fin da quando comincia a difendere, sa che è fondamentale tenere conto della reazione del giudice alle nostre parole e a quelle delle altre parti ( testi compresi, anzi soprattutto dei testi). Il video, con la sua scansione dei ruoli, fa sì che non si riesca a modellare il nostro agire e dire sulla base di una percepita reazione del giudice. Risulta difficile cambiare registro, insistere su alcuni particolari, atteggiarsi differentemente in pochi istanti. Tutto si raggela laddove invece – come succede oggi, in ogni tipo di processo, dinnanzi alle assise o nel processetto per droga – il processo è in larga misura faccenda emotiva, pulsante. Spesso non dico il tenore della decisione, ma l’entità della pena eventualmente irroganda dipendono da dettagli della comunicazione chd solo il contatto fra difensore e giudice ( o fra imputato e giudice) restituisce.

Nel processo in video, ciascuno rimane nella sua “bolla” smaterializzata. Ma il processo, per sua natura, è scontro, magari non a sangue, ma spesso di lacrime. La pluralità delle parti presenti è fondamentale. Ed è importante anche il pubblico. Per il bene e per il male, ma comunque è elemento che “si sente”, che il giudice percepisce ( forse oggi meno di un tempo). Tutti sappiamo che nella rappresentazione teatrale il pubblico è parte essenziale, quanto gli attorio, della rappresentazione stessa. Il video rinuncia a questo elemento fondamentale. E infatti, dda spettatore attivo si fa audience numerica.

Qualcuno sostiene che si potrebbe sopperire con lo scritto, con le memorie. A parte che non sempre ciò è possibile in un processo che si dovrebbe modellare sulla oralità. Ma l’esperienza ci dice che la memoria, in penale, serve ad illustrare dati tecnici o tecnico giuridici. Serve per chiarire e qualche volta sottolineare. Ma se durante il processo non siamo in grado di capire e condurre il sentire del giudicante, non c’è memoria che tenga.

Penso che dentro al processo da remoto, in ciò che possiamo chiamare e- trial, la funzione del difensore ( ma anche quella dei PM, anche se loro non ce l’hanno ancora chiaro) è fortemente compressa e compromessa. Forse è ciò che molti magistrati desiderano ardentemente e da tempo. Non si illudano, però. La via della smaterializzazione del difensore, il difensore ombra nei pixel, porterà ben presto alla superfluità anche dei PM ( anche se loro non ce l’hanno ancora chiaro) e, da ultimo, chissà, alla superfluità persino del giudicante. Questo è il medium, bellezza!