Pochi casi giudiziari hanno registrato un’opinione pubblica compattamente colpevolista come quello della Santa Rita e del dottor Brega Massone. Sono state le intercettazioni telefoniche a giocare il ruolo fondamentale nella creazione del “mostro” e della “clinica degli orrori”, a celebrare, ben prima di quello penale, il processo mediatico: pubblicate in stralci, decontestualizzate e forzate nell’interpretazione grazie ai tagli effettuati, hanno generato un clima di indignazione popolare che ha impedito qualsivoglia ragionamento successivo.Poco importa se fossero o meno rilevanti sotto il profilo giudiziario: inserite negli atti depositati dalla procura, hanno tenuto banco sui quotidiani e in televisione, e persino nella docu-fiction della Rai andata in onda nel dicembre 2014, quando il primo processo si era concluso – non il secondo, tuttavia, che attendeva ancora l’appello con un’accusa di omicidio volontario in bilico sulla testa di Brega – e la loro insignificanza si era manifestata in modo palese. Per esempio la telefonata in cui la dottoressa Galasso cita il caso di un ragazzo affetto da tubercolosi, operato da Brega e poi dimesso, che tornato a scuola avrebbe «impestato tutta la classe». Una vicenda semplicemente mai accaduta, voci di corridoio che la Galasso racconta a un’amica.La procura mette sotto controllo le utenze di Brega per otto mesi. Secondo l’impianto accusatorio e le sentenze, forniscono prova del movente dei reati di lesioni dolose e omicidio volontario: il denaro. Eppure le telefonate non contengono una sola frase che fornisca tale prova. A meno di volerla ricavare da un’arbitraria equazione: un chirurgo che parla di denaro è un chirurgo che opera solo per denaro. A dispetto del fatto che sempre Brega con i colleghi si soffermi sui dettagli terapeutici della scelta chirurgica e sulla letteratura medico-scientifica.Persino l’intercettazione in cui la Galasso definisce il chirurgo “principe dei Drg”, rimbalzata sui media fino alla noia e divenuta centrale nell’impianto accusatorio, giunta in dibattimento si è rivelata inconsistente. Chiamata (finalmente!) a testimoniare nel secondo processo, nel maggio 2013, la dottoressa ha affermato che la frase era riferita ai passaggi di cartelle tra i reparti della clinica: truffa dunque, già riconosciuta dallo stesso Brega in aula, che ha a che fare con la gestione amministrativa, e nulla c’entra con l’accusa di lesioni e omicidio. Ed è esattamente quanto la Galasso aveva dichiarato alla procura nell’interrogatorio del giugno 2008. Eppure per cinque anni, per il primo processo, fino a entrare addirittura nelle motivazioni di sentenza, si è lasciato che quella frase scolpisse nell’opinione pubblica i tratti del mostro che “operava inutilmente” persone sane.Oppure la telefonata del “pescare i polmoni dall’Oltrepo pavese”, che letta nella sua interezza ha tutt’altro significato: Brega sottolinea come il sistema dei Drg costringa i medici delle cliniche private accreditate a trovare i pazienti, e afferma di farlo rendendosi sempre disponibile per consulenze e visite gratuite. Il verbo ‘pescare’, tra l’altro, che tanto ha scandalizzato, lo pronuncia l’interlocutore: Brega, che invece parla di “bacino d’utenza”, si limita a ripeterlo in risposta. Ma parlare di soldi nel territorio del dolore e della malattia disegna nell’immaginario collettivo l’identikit del criminale, ed è ciò che puntualmente è accaduto grazie ai sapienti tagli delle telefonate.Anche il linguaggio (polmoni, mammelle) è stata una molla potente con cui si è caricata a orrore l’indignazione pubblica, con una buona dose di ipocrisia: tutti usiamo codici linguistici spicci e crudi con colleghi, amici, famigliari. Sulle parole utilizzate nelle telefonate, fuori e dentro l’aula si è tracciato un giudizio morale sulla personalità di Brega, definendola fredda, cinica e calcolatrice; che anche se fosse, giusto la lente del perbenismo esclude che simili tratti si possano accordare al profilo di un buon chirurgo.Una volta creato il clima colpevolista, la stampa si è disinteressata del dibattimento. Sotto silenzio è passato un processo complicato – la chirurgia toracica è una delle branche più complesse della medicina – basato su un impianto accusatorio teorematico che i giudici non hanno voluto scalfire, nemmeno davanti all’evidenza: tre casi clinici, in sede civile, hanno avuto sentenze di assoluzione, sulla base delle perizie super partes disposte da tre tribunali che hanno riconosciuto corretta la scelta chirurgica di Brega. Gli stessi tre casi, nel processo penale, hanno invece avuto sentenze di condanna. La difesa del chirurgo ha chiesto più volte alla Corte di disporre una super partes su tutti i casi, ma i giudici hanno sempre respinto la richiesta, e si sono rifiutati perfino di acquisire le tre perizie esistenti. E così un chirurgo toracico è stato condannato all’ergastolo, in un processo in cui il principale accusatore, consulente tecnico della procura, è un medico di base.* Autrice del libro “E se il mostro fosse innocente? ”, Paginauno edizioni.