Come infanticidio non è il primo, e purtroppo non sarà neppure l’ultimo. Come autoinfanticidio mi sembra proprio inedito. Parlo della clamorosa sconfitta referendaria del giovane e ora dimissionario presidente del Consiglio Matteo Renzi, ucciso politicamente, o suicidatosi, con ben 18 pugnalate, quanti sono i punti che passano fra il 59 per cento dei No alla sua riforma costituzionale e il 41 per cento dei Sì. È una distanza abissale che potrebbe metterlo fuori gioco anche come segretario del Pd.

L’infanticidio deriva dall’immagine fantasiosamente e generosamente attribuita a Renzi da Giuliano Ferrara di ' royal baby' di Silvio Berlusconi, cui il fondatore del Foglio è rimasto nobilmente affezionato anche nel dissenso dalla decisione dell’amico di arruolarsi nel fronte, o accozzaglia, del no referendario alla riforma della Costituzione. Un ' royal baby' mai riconosciuto appieno, in verità, dal Re ma da lui vezzeggiato anche di recente come ' l’unico leader' rimasto sulla scena politica a causa del proprio temporaneo ma pur sempre invalidante stato di incandidabile per gli arcinoti e controversi guai giudiziari.

Poi, in verità, è rimasto a vezzeggiare Renzi solo Fedele Confalonieri, il fraterno amico di Berlusconi e presidente di Mediaset. Lui, invece, l’ex Cavaliere, nelle ultime battute della campagna referendaria, un po’ per cautelarsi dall’assedio di Matteo Salvini, un po’ per il fiuto che ha degli umori elettorali, un po’ per placare il sempre più irrefrenabile Renato Brunetta, si è associato agli auspici che il referendum facesse tornare davvero Renzi a casa. E ciò non foss’altro per rispettare ' la parola data' agli inizi dallo stesso presidente del Consiglio, e perciò ' sacra', di chiudere con la politica in caso di sconfitta.

A consolare il mio amico Giuliano può tuttavia contribuire il fatto che non possono essere bastate le pugnalate politiche di Berlusconi a finire il presunto ' royal baby'. Forza Italia è ormai troppo costantemente lontana dai 18 punti percentuali che hanno separato i No dai Sì referendari. Ben diverso sarebbe stato il discorso, o ben più forte il rammarico, se la partita si fosse giocata e conclusa ' sul filo' di pochi voti o punti percentuali, come Renzi e i suoi amici ed estimatori pensavano nel peggiore dei casi. E come sono stati forse indotti a sperare ancora di fronte ai dati dell’affluenza alle urne. Che gli specialisti avevano dato per proporzionali alle possibilità di successo, non di sconfitta del Sì. Mai fidarsi, evidentemente, degli specialisti in quest’epoca delle post- verità.

*** L’autoinfanticidio, cioè il suicidio, del ' royal baby' sta nei troppi errori obiettivamente commessi da Renzi un po’ per temperamento, un po’ per inesperienza.

Egli poteva, per esempio, risparmiarsi la cosiddetta personalizzazione del referendum rimproveratagli anche dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, riuscito pure a strappargli qualche scusa e pentimento, ma poi riadottata dal segretario del Pd dopo l’ultima curva della campagna elettorale.

Renzi poteva ugualmente risparmiarsi quella forzatura della fiducia sulla legge elettorale della Camera, destinata a complicargli il referendum costituzionale con la polemica sul cosiddetto 'combinato disposto' fra Italicum e modifiche alla Costituzione, per quanto le cose fossero certamente diverse. Ancora, il presidente del Consiglio poteva risparmiarsi quel pasticciato compromesso voluto a Palazzo Madama sull’emendamento del compagno di partito Vannino Chiti. Poteva cioè accettare già nella riforma, non rinviandola ad una successiva legge ordinaria, la doppia scheda che consentisse ai cittadini di eleggere contemporaneamente i consiglieri regionali e quelli destinati a fare anche i senatori. Renzi avrebbe evitato così almeno metà della campagna referendaria a lui ostile per il Senato non più elettivo, per quanto ancora provvisto di qualche funzione legislativa, e della partecipazione alla scelta, fra gli altri, del presidente della Repubblica.

Potrei andare ancora più indietro nella ricerca degli errori, sino ad arrivare ai tempi troppi sbrigativi della liquidazione del governo del pur amico Enrico Letta, invitato a ' stare sereno' mentre gli si preparava il licenziamento da Palazzo Chigi. O addirittura alla rottura del cosiddetto Patto del Nazareno con Berlusconi per mandare al Quirinale Sergio Mattarella: vicenda, quella, sulla quale non mi dilungo solo per ragioni di buon gusto, rischiando la critica di essere scambiata per una polemica non sul metodo della scelta ma sulla persona, eccellente, dell’attuale capo dello Stato. Che si trova peraltro costretto ora a gestire una crisi difficilissima, ed anche rischiosa sotto molti, troppi aspetti: interni, internazionali, politici, economici, sociali.

Da questa crisi esce peraltro confermata la leggenda che porti sfortuna il doppio incarico di segretario del partito di maggioranza e presidente del Consiglio.

Renzi ha avuto la stessa disavventura dei leader della Dc Amintore Fanfani e Ciriaco De Mita. Che nel 1959 e nel 1989, a distanza di 30 anni l’uno dall’altro, pagarono gli inconvenienti, appunto, del doppio incarico di segretario del partito e capo del governo. Fanfani, poi, non si risparmiò neppure l’ebbrezza di fare contemporaneamente anche il ministro degli Esteri.

*** Luciano Lanna qualche giorno fa su Il Dubbio si è riservato di attribuire la discendenza o somiglianza politica di Renzi più al democristiano Fanfani o al leader socialista Bettino Craxi secondo l’esito del referendum del 4 dicembre. In caso di successo, se non ho capito male, Renzi si sarebbe guadagnato il paragone a Craxi, vincitore nel 1985 dell’insidiosissimo referendum promosso contro di lui dai comunisti sui pur modesti tagli antinflattivi apportati l’anno prima alla scala mobile dei salari.

In caso di sconfitta Renzi si sarebbe reso ancora più simile a Fanfani di quanto già non fosse per la provenienza familiare dalla Dc e per i suoi studi, con tanto di tesi di laurea, sullo storico sindaco democristiano di Firenze Giorgio La Pira.

La debacle referendaria sulla riforma costituzionale allunga su Renzi l’ombra del Fanfani battuto durante la sua seconda esperienza di segretario della Dc nel referendum del 1974 sul divorzio: espulso come un tappo da una bottiglia di spumante in una vignetta ormai storica di Giorgio Forattini.

Si potrebbe augurare a Renzi, per simpatia o solo per cortesia, di assomigliare a Fanfani anche nella capacità di rialzarsi dalle cadute: una capacità che indusse Indro Montanelli a dargli il soprannome di ' Rieccolo'. Di cui Fanfani peraltro era orgoglioso, tanto da aiutare il corregionale di Fucecchio in quel fatidico 1974 a fondare il Giornale con la migliore argenteria redazionale sottratta al Corriere della Sera diretto da Piero Ottone.

D’altronde, Renzi ha già dimostrato di sapersi prendere rivincite: prima perdendo le primarie per la candidatura a Palazzo Chigi, nel 2012, e poi vincendo, nel 2013, le primarie e il congresso per la segreteria del Pd. Cui aggiunse in poche settimane anche il trofeo di Palazzo Chigi.

Temo tuttavia, per Renzi e la sua famiglia, da lui coinvolta nella conferenza stampa di resa dignitosa e commossa ai risultati del referendum, che i tempi di Fanfani siano troppo lontani. Nel frattempo la lotta politica è diventata di una durezza allora inimmaginabile. Adesso non si fanno più prigionieri, o quasi, per ripetere l’infelice espressione di un politico sfortunato, anzi sfortunatissimo, della cosiddetta Seconda Repuublica: l’ex ministro berlusconiano della Difesa Cesare Previti.

P. S. – Ho scritto questo articolo da una postazione del Senato, dove ho voluto affacciarmi per avvertire gli umori dei pur pochi frequentatori, di lunedì, dopo lo scampato pericolo del declassamento della seconda Camera, ridotta nel progetto di riforma ad un’assemblea di cento fra consiglieri regionali, sindaci e senatori di nomina presidenziale, e non più a vita, ad eccezione di quelli già in carica e superprotetti da una norma transitoria. Non vi dico il sollievo dei presenti nel palazzo. Il tacchino è scampato a questo e a chissà quanti altri Natali. Immagino il sollievo nel palazzetto di Villa Borghese dove ha sede il graziato Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro.