Magari ha ragione il comico Enrico Bertolino: è tutta colpa del pesce rosso. Che poi è stilema del nostro modo di essere: vivere in un Paese che coltiva memoria di niente, «e perciò dopo due settimane dimentichiamo tutto e torniamo a girare nella vasca per guardare altre nefandezze». Vale a maggior ragione per la politica. Prendiamo due fatti che hanno inondato le pagine di giornali e siti web nei giorni scorsi: gli attacchi a Matteo Renzi per aver “pressato” Gentiloni a mettere la fiducia sulla legge elettorale; le accuse di strumentalità al presidente del Senato, Pietro Grasso, per aver lasciato, causa gli sdtessi motivi, il Pd senza tuttavia essersi dimesso dall’incarico. Si possono avere tutte le opinioni possibili e del resto anche chi scrive ha ritenuto la scelta renziana sul Rosatellum una forzatura e un errore. In tanti, in particolare, ne hanno tratto spunto per ribadire la necessità di tornare ai “fondamentali” dell’azione politica, colpevolmente abbandonati a favore di disinvolture comportamentali e strumentalità d’azione che contribuirebbero a precipitare l’Italia nel caos.

A che scrive, quei “fondamentali” piacciono parecchio. Però il troppo stroppia. E poiché oltre ad avere notevoli lacune mnestiche, il nostro è anche un Paese dove l’ipocrisia è in perenne spolvero, forse è il caso di piantare un paio di paletti per ordinare al meglio la discussione. Non è colpa di Renzi se del voto di fiducia si è usato e sempre più abusato nel corso degli anni anni. Bisognava rivedere i regolamenti parlamentari, l’ha sottolineato anche Giorgio Napolitano nel suo intervento al Senato. Renzi premier non l’ha fatto: tanti suoi predecessori neppure. Dunque chi è senza peccato...

Ovviamente l’accusa più acuminata è di aver fatto ricorso al voto palese proprio sulla legge elettorale, episodio con pochissimi - e non entusiastici - precedenti. Vero. Però, anche qui: se la critica è sempre legittima, parlare di fascismo alle porte o di scardinamento delle regole costituzionali è un bel po’ esagerato.

Anche il gesto di Grasso può essere legittimamente criticato. Ciò nonostante proporre, come è stato fatto, paragoni con Giuseppe Paratore che invece si dimise da presidente di palazzo Madama a causa dell’ostruzionismo contro la cosiddetta legge truffa, appare fuori luogo. Chissà quanti hanno contezza della figura di Paratore, che peraltro dopo le dimissioni fu nominato senatore a vita dal presidente Gronchi: un rapido sguardo a Wikipedia ci ricorda che fu ministro del Tesoro nel 1922 nell’ultimo governo Facta. Proporre parallelismi tra oggi e quell’epoca è come deplorare la difformità tra i veicoli a cavallo e le astronavi.

Si tratta di episodi i quali gettano entrambi luce su un’altra, peculiare, caratteristica italiana: il rifiuto del presente, il rigetto del cambiamento a favore di un nostalgismo mai domo. Lo stesso che spinge a riandare, con languore e tristezza, ad una mitica età dell’oro: la prima Repubblica, la politica delle convergenze parallele degli anni ‘ 60, i partiti ( sempre gli stessi, peraltro) padri- padroni della governabilità e del miracolo italiano: e insomma, l’eterno si stava meglio quando si stava peggio.

Non è certo questa la sede per una trattazione se la politica di oggi è meglio di quella di ieri o viceversa. Anche perchè si tratterebbe di una discettazione alquanto stucchevole. Il punto è che i bei tempi andati, con relativi fondamentali, sono appunto tali: non torneranno mai più. I partiti di una volta, la mobilitazione di piazza, i comizi ultra affollati, sono ricordi color seppia che non aiutano a capire il presente: al contrario, lo soffocano.

Forse la verità è che il nostalgismo è un’altra ( l’ennesima?) manifestazione della difficoltà che hanno non solo le giovani generazioni ma anche e soprattuto quelle precedenti a non volersi assumere le responsabilità che loro toccano. A non voler far conto, in altri termini, col fatto che se siamo ciò che siamo è perché proprio in quel modo abbiamo voluto essere. La situazione che viviamo, dunque, è il frutto di scelte compiute una dopo l’altra nel corso degli anni: non colpa di meteoriti piombate dallo spazio profondo sui Palazzi della politica.

Anche il sottoscritto, come moltitudini di cittadini, ritiene che il confronto politico abbia i suoi fondamentali, che ci siano regole che debbono essere rispettate. Ad esempio il rifiuto della demonizzazione dell’avversario; la necessità che l’interesse generale prevalga su quello singolo; il rispetto per i ruoli, le prerogative e le competenze istituzionali. Ben sapendo che si tratta di principi che debbono affondare i piedi nella realtà che ci circonda. Anche perché - eccola qui l’ipocrisia che rifà capolino anche ammesso che si trovi l’accordo sul fondamentali, poi bisogna che qualcuno: per esempio le più alte cariche del Repubblica, possano insegnarli e difenderli. Invece succede che proprio quelle autorità sono delegittimate ( vedi il Quirinale e il Parlamento su Bankitalia) oppure fatte segno di disinteresse ( vedi Napolitano sulle denunciate «pressioni indebite» ). Francesco Alberoni sul Giornale reclama il ritorno dei maestri. Il fatto è che quando si presentano, vengono spernacchiati.

Se l’eclissi delle responsabilità e l’affermarsi delle “passioni tiepide”, come le chiama Ilvo Diamanti, diventano la cifra dei nostri tempi non si tratta di un fenomeno dovuto al caso bensì il risultato del cambiamento che, piaccia o meno, l’intero Occidente sta vivendo. E’ insensato sostenere che il cambiamento sia per forza negativo: tutt’altro. Il punto è che bisogna saperlo governare e non, invece, lasciarsi sopraffare.